Francesca Cogoni: Partiamo dal tuo ultimo lavoro, DK, che presenti a Ferrara in occasione della rassegna Art Fall. Che significato si cela dietro l’accostamento tra l’eroe dei fumetti Diabolik e il tema della perdita, o meglio del furto dell’aura dell’opera d’arte?
Cristian Chironi: Il progetto si snoda mettendo in relazione la scultura del Canova (ultimo possessore di una manualità capace di conferire un’emanazione di luce) e la figura di Diabolik, antieroe per eccellenza. Un folle accostamento per un divertente antagonismo immateriale, tra mascheramenti e gioco del crimine. Il contrasto è usato come pretesto, dietro al quale si celano diverse chiavi di lettura: connotazione, iconicità, progettazione, sottrazione, spazi pubblici, serialità, capolavoro, materiale e immateriale; implicazioni che appartengono anche alla dimensione sociale. L’atto di sottrarre la pagina da un libro (luogo di conservazione mnemonica) non significa solo rompere la sacralità di uno strumento del sapere. Rubare l’aura dell’opera d’arte all’interno del museo (luogo di conservazione fisica) è sottrarre qualcosa di immateriale e spostare i margini dell’attenzione. Faccio il verso alla spettacolarizzazione odierna, che ha rubato al reale la sua veridicità, rompendo la distinzione tra realtà e fiction; riprodurre la realtà non è altro che riprodurre la finzione. L’aura è solo un pretesto per introdursi all’interno di tali riflessioni.
FC: Gran parte dei tuoi lavori e delle tue performance scaturisce dalla suggestione esercitata da una fotografia. Penso a Saluti a Modigliana (2007), che prende spunto da una fotografia del primo Novecento, o a Gap (2008), che ha origine dalle foto con cui il tenente Vittorio Vialli documentò la vita nei campi di prigionia militari in Germania. In principio vi è sempre un’immagine fotografica su cui intervieni come a voler innescare una continuità o un cortocircuito tra presente e passato, con un conseguente effetto di straniamento.
CC: Nell’immagine cerco il nutrimento da cui partire con il percorso di immaginazione. Condivido la lettura di chi sostiene che alcuni dei miei lavori abbiano la potenzialità di far rivivere gli accadimenti. In Saluti a Modigliana, in sella a una bicicletta, l’opera è “consegnata a domicilio” ai civici di due comuni: il primo riceve i saluti dalla propria storia e ne acquista consapevolezza, mentre il secondo li riceve dalla vicina comunità, diventandone continuità. Al centro del lavoro c’è la volontà di condividere la coscienza della propria storia, portando direttamente l’opera al di fuori, rendendola estranea alla sua natura abituale. Discorso differente per Gap, che lavora sul complesso rapporto che oggi viviamo tra passato e presente. L’accostamento con gli IMI (Internati Militari Italiani) e con quel periodo storico nasce da un’esigenza di rieditare la determinazione di una generazione che dopo l’armistizio preferì la prigionia tedesca alla Repubblica di Salò. Tra le immagini di vita quotidiana nel campo ho scelto quelle che immortalavano le partite di calcio che i prigionieri organizzavano all’interno di un vero e proprio torneo. Il gioco rappresentava un momento di evasione. Ho tentato di ricucire questo gap temporale e di rendere quel passato sincrono al presente. Lo straniamento in questo caso indica una critica rivolta all’odierno revisionismo, che intende riscrivere gli eventi accaduti spostandoli su un altro contesto. Gap sottolinea il problema di una corretta lettura e comunicazione.
FC: In ad’acittà (2008) ti sei improvvisato tour operator e hai guidato il pubblico in un singolare giro del mondo senza tuttavia spostarsi da Imola, con l’intento di “potenziare il mercato dell’immaginazione”. In questo caso l’azzeramento del gap fa riferimento a delle coordinate spaziali…
CC: Per ad’acittà ho scelto alcune foto dall’Archivio Tozzoni, dedicato al sottotenente di vascello Francesco Giuseppe Tozzoni, che si imbarcò in una campagna di navigazione dove fu realizzato un accurato reportage fotografico a documentazione di uno dei viaggi più affascinanti di fine Ottocento. Ho installato alcune di queste foto in scala reale in diversi posti della città. Ho poi creato un sito web simile a un’ipotetica agenzia di viaggi, che ha permesso l’interazione con gli utenti. La sera dell’inaugurazione il pubblico prenotante è stato fornito di uno stradario e trasportato in viale Orsini a una latitudine compresa tra i 23° e i 18° Nord. Per l’occasione la cattedrale imolese è diventata un vulcano emerso in superficie e il giardino di S. Domenico si è animato con i versi tipici di alcuni uccelli. Siamo confluiti alle porte di Shanghai e approdati, infine, nel canale di Suez. Il pubblico credeva a qualsiasi cosa dicessi. È stato soprattutto un lavoro sull’integrazione, senza tener conto di alcun confine.
FC: Il gioco del calcio è un motivo che ricorre spesso nella tua ricerca. Nel progetto Propp (2008) riprendi esplicitamente il Discorso sul calcio (1972) di Pier Paolo Pasolini e, per la prima volta, la tua incursione nell’immagine non ti vede solamente a margine, nella classica posa della foto di squadra, ma anche intento a giocare sul campo proprio con Pasolini. Puoi raccontarmi lo sviluppo di questo progetto?
CC: Ho cercato di mettere in relazione il modo con cui Pasolini applicò il calcio alla letteratura con il mio modo di applicarlo alle arti visive. Il calcio, come l’opera d’arte, è una metafora della vita, governata da principi, regole e significati analoghi. Volevo inoltre recuperare la figura di un intellettuale di cui oggi si avverte una grande mancanza. Se assegni una lettera dell’alfabeto a ogni giocatore in campo, a seconda dei movimenti si costruisce un fraseggio sempre diverso. Il calcio ha tutte le caratteristiche del linguaggio scritto e parlato. In Propp l’immagine fotografica è la risultante figurata del pensiero astratto nel grafico, o viceversa: all’azione corrisponde una lettura. I concetti sono traslati su un piano visivo a creare un sistema di segni che nasce dal confronto tra diverse aree linguistiche. Una comunicazione astrattamente regolata dal codice ed espressivamente veicolata dalla spontaneità del gioco.
FC: Si potrebbe parlare di un tuo spostamento da spectator a spectrum — secondo le categorie barthesiane — nelle fotografie che di volta in volta recuperi diventandone una sorta di intruso/ospite. Tuttavia, nei tuoi primi lavori, legati a una foto di tua madre vestita da sposa, è il tuo corpo che, in un certo senso, ospita l’immagine fotografica, la quale viene utilizzata alla stregua di un vestito o di una maschera. Mi sembra che qui sia molto più forte il dato emotivo e introspettivo. È così?
CC: Inizialmente c’è stato un processo di condivisione, che è passato attraverso una messa a nudo di sé, senza tener conto di preconcetti o schemi. Questo è avvenuto anche attraverso uno scavo esistenziale, un unicum tra immagine e sentire (chi pensa la foto, chi la guarda e il soggetto fotografato sono la stessa persona). Così facendo, nella costruzione, nell’ostentato citazionismo e nella compiutezza iconografica, l’opera si sottrae agli elementi più propriamente emotivi consegnandosi a un immaginario collettivo. Per cui non credo sia più forte il dato introspettivo.
FC: Dall’archivio personale a quello collettivo, dunque. Anche in riferimento alle perfomance Poster (2006) e Rubik (2008), in cui è ben evidente uno dei punti chiave della tua ricerca, ovvero l’avvicendarsi di immagine fotografica e dimensione performativa, si può parlare di un passaggio dalla sfera privata (le foto tratte dall’album di tuo padre) a quella pubblica e mediatica (le celebri immagini di piazza Tienanmen o delle Twin Towers).
CC: In Poster le sette fotografie racchiudono un’arco temporale di quarant’anni. In ognuna mutano i giocatori; esse rappresentano la documentazione generazionale di una comunità. Il passaggio dal personale al collettivo è un confine superabile nel mio lavoro. Così per Rubik le immagini tratte dalla stampa sono entrate nelle nostre case sino ad appartenerci e diventare qualcosa di familiare. Restando sulla metafora del cubo, i lati del privato e del pubblico sono facilmente ruotabili e intercambiabili. Ogni immagine pubblica presenta una storia privata, così come ogni immagine privata racchiude in sé un ritratto del mondo.