Lo studio londinese di Enrico David, negli ultimi mesi, è osservato da alcune specifiche fotografie disperse nell’ambiente. Una recente ossessione, o affezione? Credo si tratti in realtà d’intolleranza; una generica irritazione cutanea che affligge non solo l’epidermide, ma anche la mente. Sono ritratti dementi o demenziali, catturati il più delle volte da uno scatto al televisore, o uno screenshot allo stesso schermo dell’iPad, per cui la rifrazione tra gli schermi gioca un ruolo inaspettato e produce bagliori, fuochi fatui, apparizioni – non programmati di necessità ma in qualche modo capitolati per inconsapevole desiderata. Volti di persone comuni stampati in formato standard. Si tratta di alcuni membri del pubblico di Question Time, programma televisivo dove regna il “tempo delle interrogazioni”, delle urgenze che necessitato un’impellente quanto immediata risposta esecutiva; lo show britannico ha all’attivo 1373 episodi e quasi quarant’anni di trasmissione, indefessa.
Vale la pena descrivere brevemente i tratti somatici di alcuni di questi questionanti imprigionati negli scatti furtivi e frugali di David. Arcigni tutti. Le donne hanno lo stesso tono: un punto d’indignazione striato da mèches biondo ruvido su capelli increspati. Mentre i maschi, tondeggianti in prevalenza, sono seri e seriosi, illuminati da un brivido caldo (o un sudore freddo?). Labbra socchiuse in senso di stupore o per desiderio impellente di eruttare un enunciato. Gli occhi spossati (spesso incorniciati da occhiali). Ma è subito notte, o almeno foschia, oblio. Un convulso luccichio sembra agitarli senza animarli. Espressioni forse di quel puritanesimo morale e conservatorismo sociale, di quel vivere in tempi di profonda incertezza. Sconforto del pensiero.
Intorno a queste immagini dei questionanti, si dispongono le opere in gestazione di David o i loro disegni preparatori. Sono loro a offrigli, temporaneamente, la prima scomposta risposta. Gli sfugge una smorfia, un beffeggio, un giro di spalle. Si corrugano, si piegano, si genuflettono. Si riducono ai minimi termini. Arrendevoli ma non arrese. Vincitrici poiché si mostrano per quello che sono, reiette, disgustate intorno agli sguardi perplessi di quei personaggi a loro totalmente indigesti.
La fotografia non appare solo nello studio attuale dell’artista, ma ha fatto capolino con una certa frequenza anche nel suo mondo tridimensionale. Poliedrico per ordine e grado di mezzi espressivi adottati, David manifesta comunque una costante inclinazione marcatamente scultorea. Anche i disegni talvolta diventano rilievi, mentre i quadri si tramutano in possibili complementi d’arredo o tappezzerie o addirittura accessi. Mentre l’immagine fotografica spesso finisce per piegarsi, accartocciarsi come in Untitled (2010), dove un lembo di legno effigiato brutalmente con ancorati tratti di corteccia, trattiene all’estremità – all’interno di un esoscheletro in filo di rame – una pallina di plastica trasparente con prigioniero il volto di un uomo di mezza età. Corrugato nel contenimento coercitivo, i tratti fisionomici non si distendono, ma al contrario si piegano e flettono intrappolandolo nella biglia che non verrà mai rilasciata. L’opera fa parte di una serie di sculture e pitture coeve, dove David investiga gli organi nella parola; l’emissione del verbo e tutti i contenuti e i contenitori che potenzialmente rischiano di rimanere bloccati, laddove un vento troppo invasivo finisse per respingere, esiliare alla sorgente la loro vocalizzazione. Spesso queste immagini fotografiche provengono da residui diurni abbastanza qualunquisti – questo volto, ad esempio, da un dépliant bancario. Altrove, altra ricorrenza, compaiono dettagli fotografici di avambracci come in Untitled (2001), ufficialmente un collage dove la stessa simil-biglia senza contenuto accertato (il volto è smarrito in una serie di forme circolari incidenti) è sorretta dal ritaglio di due mani, mentre le stesse si riflettono speculari – tratteggiate a penna – sulla parte inferiore del corpo, in zona genitale, come se trattenessero un sesso a fisarmonica. La gabbia toracica è accentuata, stilizzata; la doppia coppia di arti fa perno sui due gomiti e inquadra il corpo scheletrico all’interno di un quasi perfetto rombo. Manichino, marionetta, spessore estradossato per un pene che idealmente cerca di flettersi e di uscire dallo spessore di muro (o dalla cornice). Linee rosse a penna aprono infine un occhio sul palmo della mano.
Esiste anche un volto (sempre ritaglio fotografico) estremamente ricorrente: il travestito dai capelli rosso fuoco con gli occhi sgranati e il rossetto vagamente sbavato reclutato da una rivista gay londinese non pervenuta. Compare per la prima volta sulla torta regalo dell’amico Luke (Dr. Luke’s cake, 2008) – ideata e ordinata dall’artista insieme al designer Anthony Simmons – e subito dopo nel 2009, affissa, confido nella stessa configurazione, su uno dei setti-paraventi divisori a leporello che segmentano lo spazio della mostra “How Do You Love Dzzzzt By Mammy?” al Museum für Gegenwartskunst di Basilea nel 2009, in caritatevole compagnia di altre immagini fotografiche, spesso sgranate, talvolta ripetute. Si alternavano di pannello in pannello ricordi biografici dell’artista da bambino mentre posava per una campagna pubblicitaria di giocattoli e uomini adulti con sguardi sforzati, mandibole digrignate, labbra protese. La fisarmonica della struttura e quella dell’arnese musicale trattenuto nella composizione dei due bambini. E poi di nuovo, il travestito, l’ho visto apparire incastonato nell’ansa conclusiva di un potabile prototipo di mobilio: un divano o una dormeuse, sinuosa come la malia di un serpente nero, senza un chiaro inizio, ma con una netta fine coincidente con il sopracitato volto.
Sono soprattutto volti che rimangono impressi, un piacere retinico che li preleva da un vicinato di reperti affettivi o da incontri casuali, clandestini; tra gli album di famiglia e le pagine di un opuscolo qualunque non immediatamente cestinato. Prevalentemente patinate, queste non-ancora icone diventano altro, assumono corpo, occupano spazio. Si conquistano comunque volume. Ci sono finito anch’io un paio di volte.
A Basilea, uno dei due figuri sessualmente maturi e potenzialmente attivi esce dall’affissione e si tramuta in oggetto, figura-presenza: uomo ovoidale con gambe a dondolo. Sono due, gli stessi successivamente scritturati anche per lo stage e il proscenio di Absuction Cardigan (2009), insieme ad altri coprotagonisti e figuranti — l’installazione con cui David si è presentato al Turner Prize nel 2009. Esiste un riferimento per la loro configurazione: il design di un giocattolo di Koloman Moser dei primi anni del Novecento per Wiener Werkstätte. Il cappuccio, quasi mantiglia, di uno dei due uomini diventa ora, in qualche modo, totalitario a ricoprire completamente l’intera figura che si piega in una rotondità irreale, o meglio surreale. Ad adeguata altezza sbuca il volto ancora più sgranato e ai lati, sempre a pertinente distanza dagli altri possibili attributi corporei due avambracci (quelli dell’artista, è stato detto) che tentano un’infruttuosa ricognizione in zona genitale. Le gambe, due dondoli, danno all’uomo “pinguino” l’oscillazione di una culla. Il mondo infantile si fa oggetto, personaggio, prende spazio, occupa volume.
La vera, prima, incarnazione fotografica dell’infanzia di David si presenta tuttavia in modo (quasi) letterale nella sua istallazione Ultra Paste del 2007, anche titolo della sua prima personale in Gran Bretagna all’ICA di Londra lo stesso anno. L’istallazione è un diorama che evoca la stanza che il padre di David aveva disegnato per figlio. Lí, l’infanzia ha supportato la sua adolescenza circondata da un verde smeraldo. In un angolo, un giovane uomo con i pantaloni calati sembra strusciarsi contro una figura in legno, una marionetta, di nuovo. A terra, una pozzanghera di un liquido oleoso marrone si sparge sul pavimento in graniglia. Forse il ragazzo non si sta masturbando ma sta solo pisciando. Il diorama infatti è basato su un foto-collage di Dora Maar. Creato nel 1935, il lavoro ha come titolo Vieille Femme et Enfant, “vecchia donna con bambino”, ma è meglio conosciuto come Le Pisseur, “il piscione”. Al posto dell’uomo, potenzialmente dotato di una sessualità alloerotica, era un bambino in fase genitale, mentre al posto della marionetta a braccia dispiegate, in segno d’incipiente abbraccio o a causa di un’invisibile crocifissione, si trovava una donna anziana: una nonna, o un’istitutrice âgé.
I pantaloni calati nel diorama di David ricordano da vicino la soldataglia di uomini a chiappe conserte su alti stivali e tenuta verde militare di Two-minded outpour (with M. Mc) (2005). Dal secchio-elmetto della figura in posizione centrale cola una macchia: catrame, cemento, colla, resina… forse fango? Tutte improbabili sostanze per questa materia vischiosa, che al contatto con il capo dei tre uomini disposti a ventaglio si tramuta in corteccia, ramificazione, michaelium. Mentre nella zona superiore del collage, i figuri mutano le gambe in colonne-bambù e continuano instancabili a ispezionare la zona pelvica, forse per una pisciata collettiva o per un bukkake, in entrambi i casi generosamente offerto ai sottostanti. Forse lo studio per una futura fontana? Senza pudicizia e tanto meno pruderie, il dizionario di David è in qualche modo destinato a manifestarsi svariate volte sotto mentite spoglie. Attendo impaziente, trepidante, che Study for a Body as a Dog’s Training Camp (2011) trasformi il corpo umano in un ludico percorso ad ostacoli per animali a quattro zampe. Giusto per chiudere tornando all’inizio: fotografie di gatti maliziosi e cani catturati in pose irriverenti animano (non popolano) da sempre lo spazio di lavoro (e di vita) dell’artista d’origine marchigiana.