Damiano Gullì: Cominciamo da un’immagine dalla forte valenza iconica. Nel 1980 la invitano alla Salpêtrière a Parigi, per un convegno sul postmoderno, e lei indossa provocatoriamente una maschera antigas. Cosa voleva comunicare con quel gesto?
Gaetano Pesce: Ero convinto che quando si guarda al passato si crea un’aria irrespirabile. Consideravo il postmoderno, almeno in architettura, uno sguardo indietro nel tempo. Quando l’architettura guarda al passato è perché non sa rigenerarsi. Il convegno alla Salpêtrière era stato organizzato nel periodo successivo alla Biennale Architettura di Venezia in cui Paolo Portoghesi aveva presentato la “Via Novissima” (1980), con oggetti che erano dei collage nostalgici sugli stili. Ho scelto di salire sul podio venendo dalla parte del pubblico e indossando una maschera antigas. Il pubblico era sorpreso, gli altri relatori erano disturbati, durante i loro interventi, dal rumore del mio respiro che veniva amplificato dalla maschera. La mia presenza dava fastidio. Invece di pensare a come fare meglio per servire la società in modo diverso, il postmoderno trasformava l’architettura in una specie di carnevale estetizzante.
DG: A Padova fa parte del Gruppo N con Alberto Biasi, Toni Costa, Ennio Chiggio, Tino Bertoldo, Milena Vettore ed Edoardo Landi. Ci parli di quegli anni e di come si è poi sviluppato il suo percorso, passando per la frequentazione dei gruppi radicali fino all’incontro con Cesare Cassina.
GP: Mi sono trovato con degli amici a formare un gruppo. Eravamo contrari all’informale nell’arte, la produzione artistica contemporanea era per noi irrazionale, poco comunicabile. Volevamo creare un servizio per il pubblico, mostrando, prima di tutto, che operavamo come gruppo e non come singoli individui, e che impiegavamo linguaggi propri della geometria e della scienza. Abbiamo fondato una galleria e abbiamo collaborato con altri gruppi attivi in Europa e a Milano: il Gruppo T, il Gruppo Zero, il GRAV. Presto, però, mi sono reso conto che c’era qualcosa che non funzionava: con il nostro modo di esprimerci eravamo tagliati fuori da qualsiasi cosa succedesse nella realtà. Allora c’era la guerra in Vietnam, noi protestavamo ma non facevamo lo stesso come artisti e con il nostro lavoro: c’era una separazione fra le due cose. Questo è stato un motivo per uscire dal gruppo. Con la mia compagna di allora, Milena Vettore, avevamo organizzato una mostra esponendo diverse forme di pane per esemplificare il concetto che non è importante la forma delle cose, ma il contenuto, i processi. Il pane non si cerca per la sua forma ma per il suo contenuto. Per spiegare il mio distacco dal Gruppo N ho realizzato una pièce di cui proprio Flash Art (che in quell’anno nasceva) pubblicò una foto. Era il 1967. Si trattava di una specie di performance in cui un individuo stava su un palcoscenico con la schiena nuda rivolta al pubblico. Si sentivano degli spari e si vedeva del sangue che usciva dalla sua nuca. La pièce durava ventisette minuti e per tutto il tempo il sangue continuava a colare verso il pubblico. Ne usammo 500 litri, veniva riscaldato ed emanava vapori e odori. La gente non poteva uscire perché il sangue era ovunque. Per me era un modo per dire che era finita con le astrazioni e con i formalismi. Era giunto il momento di parlare di una realtà spesso non piacevole, drammatica, violenta. Era il segno di un cambiamento, di una presa di posizione. Ho poi prodotto opere che potevano andare in direzione dell’architettura radicale, anche se non ne ho mai fatto completamente parte. Se guardo indietro, il movimento radicale non ha dato i frutti che voleva. Il nostro mestiere è essere utili alla società, se si è inutili si è frustrati. Se il nostro lavoro esce dall’utilità, esce dalla vita.
DG: Con l’azienda genovese Bracciodiferro ha avuto una feconda collaborazione che ha visto nascere oggetti straordinari come la lampada Moloch. Ci racconti di questo periodo molto sperimentale e per certi versi pionieristico.
GP: Con Milena Vettore abbiamo conosciuto Cesare Cassina, il fondatore della Bracciodiferro, che ci ha invitati a fare ricerca e sperimentazione nella sua fabbrica. Cassina vedeva lontanissimo, ha fatto molto per il design italiano. Grazie a lui ho imparato molto, per esempio che la cultura del nostro tempo è una cultura “corta”, che non pretende di coprire grandi periodi storici e ha valori che valgono per periodi molto brevi. Il nostro tempo è fatto di contraddizioni, di contenuti che si affermano e spariscono velocemente. Con Bracciodiferro ho realizzato oggetti che non mi sembravano “radicali” ma utili. Per esempio, sono partito dalla constatazione che non esisteva una lampada per grandi spazi. La lampada esisteva già, ma era di piccole dimensioni e la sua forma era già molto pratica: si trattava di quella usata dai disegnatori. Non ero interessato a creare una lampada nuova, per cui ne ho quadruplicato le proporzioni ed è nata la Moloch. Avevo capito che la futura arte sarebbe stata quella che si faceva nella fabbrica. Sono convinto che il design, rispetto a molte opere che si vedono nei musei di arte contemporanea, rappresenti molto più la realtà. Il design è la forma più vicina alla nostra realtà, che è fatta di produzione.
DG: E proprio un esemplare della Moloch, appartenente a François Mitterrand, alcuni anni fa è stato battuto all’asta per la cifra record di 180 mila euro. Qual è la sua visione del mercato del design in un periodo in cui l’attenzione dei media, il proliferare di fiere, le alte quotazioni dei pezzi dei maestri e lo sperimentalismo dei giovani che porta alla creazione del pezzo unico o alla serie numerata, lo stanno avvicinando a quello dell’arte?
GP: Ho realizzato la Moloch in cento pezzi. La cifra raggiunta in asta può far capire quanto valga un’idea. Io sono convintissimo che la creatività abbia un valore, un enorme valore. È sbagliato fare le cose gratis. Un’idea può generare un bene economico maggiore, per cui bisogna riconoscerla. Vorrei che i miei colleghi lo capissero. La mia riflessione sui pezzi unici e la piccola serie nasceva dalla considerazione che lo standard era diventato obsoleto. Grazie alla tecnologia si possono facilmente ottenere pezzi unici. Gli uomini sono liberi, sono diversi gli uni dagli altri, quindi perché non possono esserlo gli oggetti? Nella produzione bisogna considerare la possibilità di creare oggetti ognuno con la propria individualità, si deve lavorare con nuovi materiali, studiarli per arrivare a questi risultati. Se l’oggetto inizia a esprimere non solo la funzionalità, ma riesce a raccontare la sua storia, la cultura di chi l’ha fatto, un pensiero politico, allora, in quel momento, il design diventa arte.
DG: La Spezia, Padova, Venezia, Helsinki, Parigi, New York, Bahia… la sua vita è caratterizzata da un certo nomadismo: c’è una città a cui è maggiormente legato?
GP: Il nomadismo è la non ripetizione. Cercavo di evitare l’assuefazione ai luoghi, imparavo così l’idea della tolleranza. Il mondo è fatto di diversità e se vogliamo coabitare dobbiamo tollerarla. La democrazia non deve garantire l’uguaglianza, deve garantire e proteggere la diversità. La pluridisciplinarietà come espressione della creatività deve essere un fatto normale. Gli oggetti devono avere una propria individualità. Ancora oggi sono trattati come “schiavi”, devono essere tutti uguali. Se uno è “diverso”, lo si considera difettoso e lo si butta via. Ci sarà una terza rivoluzione industriale, sovvertendo l’idea di produzione: oggi lo standard e domani il non standard. È un messaggio fortemente politico.
DG: Come giudica il panorama del design italiano contemporaneo?
GP: Mi sembra che il design si basi ancora sulle forme, sarebbe meglio che si basasse su invenzioni e innovazioni di processi. Valori come la bellezza assoluta, la ricerca della perfezione sono passati, sono logiche che hanno fatto il loro tempo e che, in un certo senso, sono “velenose”, perché i giovani potrebbero prenderle ancora come un punto di partenza. Ci sono delle possibilità enormi, ma ancora non si sfruttano tutte. Sono convinto che l’incoerenza debba essere abbracciata dai creatori. La ripetizione fa morire la creatività. Le produzioni aleatorie, la personalizzazione della serie nel futuro potranno coprire dei mercati enormi.
DG: Alvar Aalto, Le Corbusier, Andy Warhol… non solo artisti, architetti e designer, ma anche uno dei fondatori della meccanica quantistica, Werner Karl Heisenberg. Nella sua vita ha avuto modo di fare straordinari incontri. Quali l’hanno particolarmente segnata?
GP: Avevo lo stesso collezionista di Warhol, che ci mandava il suo aereo privato a New York perchè cenassimo da lui in Virginia. Per Warhol l’arte era mercato, non guardava al suo lavoro con romanticismo, era libero e coerente. Sono andato a trovare Le Corbusier che mi ha fatto parlare per mezz’ora senza che lui dicesse nulla. Abitando a Helsinki ho avuto invece molte occasioni di incontrare Alvar Aalto.
DG: Si sente influenzato da alcuni artisti in particolare?
GP: Diversi: Michelangelo, Caravaggio, Duchamp, Dalì… Duchamp cerca di avvertire i suoi colleghi che il mondo romantico è finito, l’oggetto industriale contiene tutto quello che può essere espresso. Sembra dire che la realtà è marketing, tecnologia, pubblicità.
DG: Tramonto a New York del 1980 è una delle sue creazioni più celebri, nonché un omaggio accorato alla sua città di elezione. In occasione dello scorso Salone del Mobile ha invece presentato Montanara, in cui è la natura a impossessarsi e a modellare le forme del divano: è una sorta di risposta allo skyline newyorkese di trent’anni prima?
GP: L’architettura deve esprimere forme riconoscibili, comprensibili. Per me la conoscenza passa attraverso la forma delle cose, non attraverso l’astrazione. La figura è molto più democratica. Con il divano Tramonto a New York volevo raccontare un periodo di apparente decadenza della città come capitale del XX secolo. Il divano Montanara in un certo senso riafferma l’importanza dell’immagine, dà un’idea di natura, di freschezza.
DG: Sono passati circa quarant’anni dalla storica mostra “Italy: the New Domestic Landscape”, curata da Emilio Ambasz al MoMA. In quell’occasione lei ha presentato un inquietante habitat per due persone in cui, fra gradini di escheriana memoria, dal buio affiorano a tratti figure antropomorfe che parlano di drammi, crisi e invivibilità. Oggi come rilegge quell’esperienza e il suo intervento?
GP: Volevo presentarmi come un archeologo dell’anno 3000 che scopre nell’Italia del Nord, in una caverna, un enorme spazio abitato che ospitava dei liquidi. Lo spazio svuotato dei liquidi simboleggiava la mancanza di energia (questa immagine ha profeticamente anticipato la crisi del petrolio del 1973). L’atmosfera era angosciante. L’architettura diventava espressione di esistenza, aveva uno spirito “non collaborazionista”, esprimeva una situazione di degrado morale, di isolamento, di non comunicazione.
DG: Come ha vissuto l’11 settembre? In cosa consisteva la sua proposta per la ricostruzione dell’area di Ground Zero?
GP: Ero a Londra e dovevo tornare a New York, ho sentito la notizia per radio. Quando sono rientrato dopo undici giorni, ho “reagito” con un progetto. A un gesto distruttivo bisogna rispondere con uno ottimista, costruttivo. Ho proposto di ricostruire le due torri e renderle staticamente ancora più forti di come erano prima, aggiungendo all’ultimo piano un edificio che fungesse da “catena” e contenesse spazi per i visitatori, un museo, un memoriale. Per questo edificio ho voluto usare dei simboli positivi. New York ha un simbolo universale: il cuore di I Love NY. Io l’ho impiegato in modo che si potesse vedere da tutta la città e fosse riconoscibile da tutti.
DG: Fra i progetti che non sono stati realizzati c’è quello per un monumento alla principessa Diana. Come era concepito?
GP: Ero in Brasile e sono rimasto colpito dalle immagini del suo funerale e dalle manifestazioni di commozione universale. Volevo dare una testimonianza di questo avvenimento con un’architettura che implicasse l’uso di materiali nuovi. Il progetto prevedeva di estendere all’esterno la colonna del Tunnel de l’Alma che ha provocato l’incidente, realizzandola in un materiale luminoso, soffice e flessibile. Parigi voleva il monumento ma ho ricevuto una lettera dal consolato britannico che affermava che il mio progetto non era visto con simpatia dal governo inglese.
DG: In molti fra i suoi lavori più visionari emerge prepotentemente la dimensione della religione e del sacro: angeli apocalittici, il Golgota, san Sebastiano, il sangue (della passione e delle stigmate). Come nascono pezzi, anche fortemente iconoclasti e provocatori fino alla blasfemia, come Manodidio e Sessodidio?
GP: Provengo da un paese dove la religione è importante. La mia identità, anche se non sono credente o praticante, è fatta di questo. Anche il design che faccio deve tener presente questa componente. Il portacenere Manodidio (una mano in gesso dal cui palmo si irradiano macchie rosse come di sangue) nasce da una riflessione sulla nostra indifferenza a tutto, anche se ci spegnessero una sigaretta sulla mano. Sessodidio è un sesso maschile in erezione che sanguina: la mascolinità provoca violenza.
DG: La Up5 è il suo primo progetto in cui introduce un elemento figurativo. Allo stesso tempo si tratta di un oggetto “performante” (l’apertura del packaging è una sorta di rito durante il quale la poltrona, conservata sotto vuoto, prende forma e si modella davanti agli occhi del suo possessore imponendo i propri tempi). Come è nata?
GP: Bisogna dare al mercato un oggetto utile ma che faccia anche pensare. Ho avuto la possibilità di realizzare una poltrona con un messaggio politico. La sua forma riprendeva un corpo femminile con al piede una catena alla cui estremità è legata una palla. Questa è l’immagine del prigioniero e, in questo modo, la Up5 parlava della condizione della donna quale prigioniera del pregiudizio dell’uomo. Essendo immessa sul mercato, la poltrona trasferiva così in maniera diffusa anche un punto di vista politico.
DG: I suoi oggetti si sono sempre caratterizzati per essere intrinsecamente “politici”. Anche al giorno d’oggi un oggetto può essere tale?
Gp: Secondo me sì. Per esempio, la mia lampada Chador Lamp è sostenuta da due piedi ma, se si guarda bene, essi finiscono in due specie di pantofole arabe che, se si guarda ancor meglio, rappresentano in realtà due donne stese trapassate da coltelli. Il chador è un oggetto di violenza di cui sono vittime le donne.
DG: Nelle sue opere ricerca spesso la sinestesia. Dagli oggetti si sviluppa un racconto che vede il coinvolgimento di tutti i sensi, dal tatto all’olfatto, al gusto. Qual è stato il suo primo lavoro in questa direzione?
GP: La vista è sempre stata il senso più sollecitato, talmente tanto da risultare obsoleta. Se raccontiamo qualcosa con un odore ci tocca di più perché non siamo abituati. Nel 1975 ho presentato una retrospettiva del mio lavoro a Parigi. Ho costruito una vetrina in omaggio a Mies van der Rohe, con forme geometriche contenenti dei mucchi di carne. La struttura aveva dei buchi per cui la condensazione creava dei liquidi che andavano a impregnare la moquette sottostante. L’odore si diffondeva dappertutto nelle sale e anche negli uffici. Avevo inoltre chiesto che gli uscieri spruzzassero sui muri un’essenza di muffa ideata appositamente da un chimico. Era un modo per dire che il museo è un luogo irrespirabile. Gli uscieri hanno scioperato, il museo ha chiuso per alcuni giorni e il direttore ha chiamato una compagnia per ripulire gli spazi. Avevano messo un cartello, che ancora conservo, con una scritta che può essere interpretata ironicamente: “l’omaggio a Mies van der Rohe è stato tolto per ragioni di igiene pubblica”. Al Centre Pompidou, in un’altra occasione, avevo chiesto che nella mostra fosse spruzzata l’essenza del minestrone, perché il mio lavoro è un po’ un minestrone di cose. Era come entrare in una casa italiana. Anche in questo caso ci sono state proteste e dopo pochi giorni l’essenza è stata tolta. A New York ho presentato un paesaggio realizzato con olio, vino, cavolfiori e fragole. La mostra è stata consumata dagli spettatori che la portavano così nel loro stomaco, non nel cervello. Hanno capito la mostra attraverso il gusto.
DG: Nelle sue mostre l’allestimento è sempre molto importante: dalla già citata “Italy: the New Domestic Landscape” alla mostra a Tokyo nel 1992 (dove ha costruito un grande letto da cui guardare dei film), dalla sua reinterpretazione della città di Fedora in occasione de “Le città in/visibili” alla Triennale di Milano (2002) fino alla scelta di utilizzare carrelli del supermercato come basi di appoggio per gli oggetti nella retrospettiva “Il rumore del tempo” (Triennale, 2005). Inoltre, ha introdotto l’idea di mostra che cambia con il tempo: dalla scelta di curatori a rotazione, che durante il periodo di apertura dell’esposizione propongono o sottraggono alla vista dei visitatori gli oggetti, all’inserimento di opere con cui il visitatore può interagire modificandole.
GP: Anche i metodi espositivi devono evolvere e io mi sono posto delle questioni sulle modalità. Al Pompidou in certi giorni le opere erano visibili, altri giorni no, in Triennale si sono scelti invece dei curatori che non c’entravano niente con il mondo dell’arte o del design, ma semplicemente, prima dell’apertura della mostra, dovevano di volta in volta scegliere da catalogo quello che piaceva loro oppure no. Il modo di esporre deve essere legato al suo tempo. È anche un invito per la gente a ritornare per conoscere meglio. Bisogna sempre avere il dubbio di non sapere tutto.
DG: Cosa intende quando parla del “femminino” come base per il progetto? Può esemplificare la dicotomia maschile-femminile?
GP: Non mi piacciono le donne che fanno architettura secondo i metodi maschili. Credo che la logica del pensiero maschile in architettura sia arrivata a una conclusione. Per rinnovare l’architettura bisogna pensare con la parte femminile del cervello. Gli uomini hanno dei valori molto rigidi (il dogmatismo, la coerenza, la geometria, il senso del guerriero, del cacciatore), sono monolitici, autoritari e totalitari. Non c’è altro modo per rinnovare l’architettura se non ragionare in una logica diversa: pluridisciplinare, elastica, liquida, sensuale (la sensualità è un gesto di amore verso gli altri). Questi valori del femminile sono importantissimi per servire le necessità future della società.
Dg: Progetti recenti come il Pink Pavilion o il Pescetrullo — architetture fluide che offrono soluzioni e modalità alternative dell’abitare — riprendono alcune tematiche a lei care: impiego di forme morbide fito e antropomorfe, sperimentazione sui materiali, ironia nella progettazione. Quali sono i suoi progetti futuri?
GP: Possibilmente far sorridere…