Nicholas Serota: Per più di cinquant’anni hai lavorato con la scultura, il disegno, le fotografie, hai dipinto sulle fotografie, ma sei sempre rimasto assolutamente leale alla pittura. Di certo sei conosciuto come pittore e nel mondo contemporaneo questo tipo di lealtà è abbastanza inusuale.
Gerhard Richter: Molti trovano altri medium interessanti — metti un video in un museo e nessuno guarda più i dipinti. Però dipingere è il mio mestiere e io ho sempre fatto solo ciò che mi interessava di più. Ora ho una certa età, ho una tradizione diversa e, in ogni caso, non posso fare altro. Rimango sempre dell’idea che dipingere è una delle capacità intrinseche dell’uomo, come ballare e cantare, una capacità che ha senso, con cui conviviamo, qualcosa di assolutamente umano.
NS: Stai ancora pensando di realizzare un oggetto senza tempo?
GR: Non è che ci pensi costantemente, più che altro desidero mantenere una certa qualità artistica che commuova, che vada al di là di la di ciò che siamo, ed è questo quello che chiamo “senza tempo”.
NS: Qualche volta ti sei definito un pittore classico.
GR: Non sono mai stato sicuro del significato di questa parola, anche se l’ho utilizzata senza farci troppo caso; “classico” è sempre stato un concetto ideale per me, con cui da sempre convivo. Di certo è un ideale non scevro di difficoltà perché non sono mai riuscito a raggiungerlo. E alcuni dei miei dipinti riflettono alla lettera questo problema, come per esempio la serie “Titian”. Volevo realizzare per me un’immagine deliziosa, nel vero senso della parola, che fungesse da cartolina. Ma non ha funzionato, e ora rimangono questi cinque dipinti a memoria del mio insuccesso. La stessa cosa è avvenuta con i monocromi grigi e le “Colour Charts”, in cui differenti colori sono collocati in modo casuale — il punto di partenza, l’origine di dipinti come questi ha a che fare con l’impotenza. E se invece va tutto bene, è solo perché ho esposto il problema nel modo più chiaro possibile e ho trovato al forma appropriata
NS: Parliamo ora di scetticismo e ironia; in che modo inizi a dipingere?
GR: Qualche volta sono fortunato, ho un’idea e penso “questa potrebbe diventare un quadro”, come nel caso di alcuni lavori realistici, o che vedo tali, e che fotografo, oppure di una fotografia della mia collezione che mi salta all’occhio fra tutte le altre. A volte invece possono trascorrere anni prima che effettivamente la dipinga e, se si tratta di astrazioni, ho solo una vaga idea dell’immagine che mi chiede di essere dipinta. Comincia così, ma il risultato non è mai quello che immaginavo.
NS: Alcuni artisti hanno nei loro studi i dipinti a cui stanno lavorando, ma tu a volte non dipingi per lungi periodi di tempo.
GR: Hai ragione, e questi periodi sono alquanto piacevoli, soprattutto all’inizio, quando sono impegnato in altro; ma se va troppo per le lunghe comincio a sentirmi a disagio e mi preoccupo che non tornerò mai più indietro, che non farò più nulla, anche se ho sempre ricominciato.
NS: Per te è più facile iniziare con un’immagine piuttosto che con un’astrazione?
GR: Non sempre, ma questa volta sì, mi sento così piacevolmente tranquillo dopo tutto questo correre, sto seduto e sono concentrato sul mio lavoro. Le astrazioni sono diverse, molto attive, più complesse, un caos, una sorta di battaglia.
NS: Allora la pittura possiede una qualità intrinseca?
GR: Sì, ogni buon dipinto ce l’ha e si sedimenta per anni. Questo è ciò che tutti noi cerchiamo di fare: vedere e definire questa qualità. In verità distinguere fra bene a male è l’obiettivo culturale più fantastico, su cui ci siamo sempre impegnati, sia come spettatori sia come produttori, da tempi immemori.
NS: Ti confronti con il passato?
GR: Sì, avviene in modo automatico. Le influenze più importanti, le mie radici, il mio sentimento di obbligo, la mia morale.
NS: E perché allora ti sentivi insoddisfatto di dipingere?
GR: Non era solo una questione di lavoro, non riuscivo a imboccare la via giusta e cominciavo a immaginare che non sarebbe avvenuto e che mi rendevo conto che avrei realizzato un dipinto semplicemente brutto.
NS: E per quanti giorni ci hai lavorato?
GR: Con ieri il quinto, ma non per otto ore al giorno, più o meno per quattro.
NS: E alla fine hai raschiato via tutto?
GR: Infine risulta più bello.
NS: Se non erro una volta hai utilizzato il termine “immacolato”?
GR: È controverso, un po’ come la perfezione che di solito è molto noiosa. Comunque esistono alcune opere d’arte “immacolate” e che non sono minimamente noiose, per esempio quelle di Leonardo, Carl Andre, Vermeer e altri ancora.
NS: Dunque nel realizzare i dipinti che rappresentano la realtà, in modo specifico i paesaggi, pensi spesso a Vermeer, o solo in questo caso particolare?
GR: Solo quando dipingo — altrimenti mai. Questo genere di modelli pittorici sono generalmente nella mia testa, e di conseguenza solo quando termino di dipingere mi ricordo per esempio di Vermeer come nel caso di Reader.
NS: Allora ti sei ritrovato a utilizzare delle tecniche specifiche, come quelle impiegate nelle opere di Vermeer?
GR: No, non direi. Il fatto che dipingesse bei quadri, più di altri, non ha nulla a che vedere con una tecnica particolare tutta sua; ha a che fare con un altro tipo di qualità, qualcosa di misterioso.
NS: Allora cos’è che cerchi, qual è questa qualità?
GR: Sì, cosa c’è di così speciale in una villa di Palladio o in un pezzo di Bach o di Cage?
NS: E cosa lega Vermeer, Palladio, Bach e Cage?
GR: La qualità di cui ti parlavo prima. Niente di macchinoso, sorprendente, acuto, né sconcertante, interessante o cinico, non può essere pianificato e nemmeno probabilmente descritto. Va semplicemente bene.
NS: Per quanto riguarda i dipinti realistici, hai un’immagine nella mente e puoi decidere che non va e abbandonare il progetto.
GR: Sì, ma non è di grande aiuto. Infatti accade esattamente la stessa cosa con le opere astratte.
NS: Allora hai già un’idea in mente quando decidi di realizzare un dipinto in particolare? Come fai con quelli astratti?
GR: Be’, l’inizio effettivamente è abbastanza facile, perché posso maneggiare ancora l’andamento delle cose: colori, forme ecc. E dunque emerge un’immagine che potrebbe essere buona per un po’: ariosa, colorata e nuova. Ma non durerà più di un giorno e a quel punto sembrerà brutta e finta; quindi comincia il vero lavoro: cambiamento, estirpazione, nuovo inizio, e così via, finché non è concluso.
NS: Allora la prima cosa che fai è decidere il formato?
GR: No, veramente no. Di tutti i dipinti grigi solo tre o quattro sono di piccolo formato
NS: E quindi cominci a utilizzare il grigio stesso?
GR: Sì, perché la differenza fra i vari grigi mi affascina, il fatto che alcuni siano migliori di altri mi spinge a continuare a realizzare i monocromi grigi.
NS: Sicuramente quando lavori con il grigio, suppongo che tu sia conscio di due cose: la prima è il colore, perché non esistono due grigi uguali, possono diventare caldi oppure freddi; la seconda è la superficie. Dunque su cosa indaghi quando realizzi i dipinti grigi?
GR: Gli otto in mostra nel 1974 a Mönchengladbach sono stati realizzati a spazzola e danno una sensazione di illusione come se vi si potessero scorgere nuvole o altro ancora. Qualcosa che non hai visto prima… dunque a volte sono simili a paesaggi che non esistono e non esisteranno mai, perché in natura non ci sono questo tipo di paesaggi, né cieli o nuvole simili.
NS: Parliamo ora della serie “Elbe”, che esplora il linguaggio astratto agli inizi del 1957.
GR: Era un gioco.
NS: Un gioco?
GR: Sì. All’Accademia frequentavo un seminario per imparare le antiche tecniche di stampa. In un angolo c’era un fantastico rullo e dell’inchiostro nero, ho provato a fare alcune cose e il risultato non è stato proprio niente male. Però ricordo che a un certo punto ho pensato che non poteva essere così semplice; non aveva nulla a che vedere con l’arte. Allora un amico ha portato rullo e inchiostro a casa e li ha conservati per cinquant’anni.
NS: Erano i soli dipinti astratti che hai fatto per vent’anni?
GR: No. Ho fatto diversi tentativi prima di lasciare la Germania dell’Est. Ma erano anche tentativi, diciamo, più deliberati, della serie “ok, ora farò un quadro astratto”. Invece la serie “Elbe” era assolutamente non intenzionale.
NS: Quando sei andato a documenta nel 1959, ti ricordi che cosa guardavi?
GR: Cercavo dipinti realistici ma trovavo con difficoltà qualcosa che mi piacesse, però quando ho visto Pollock e Fontana ho avuto uno shock. Erano così penetranti. Uno aveva appena fatto un taglio nella tela, l’altro vi aveva sgocciolato della pittura. Ero assolutamente impreparato a tutto ciò.
NS: E ti ricordi se il tuo lavoro da allora è cambiato?
GR: Ha esercitato una certa influenza sì, nel senso che c’era una ragione in più per lasciare la Germania dell’Est.
NS: Dunque hai cercato di realizzare dipinti astratti?
GR: [ride] Sì, questo anche, certo.
NS: Ma hai distrutto questi lavori, no?
GR: Sì.
NS: Durante i tuoi primi dieci anni in Occidente, la maggior parte dei tuoi lavori si basava sulle fotografie. In quel periodo realizzavi anche dipinti astratti?
GR: All’inizio il mio lavoro aveva più a che fare con Dubuffet, Chadwick e Fautrier. Solo in seguito ho cominciato a dipingere a partire dalla fotografia.
NS: Ma il vero slittamento sul grigio e sugli “Inpaintings”, e un differente approccio all’astrazione, è avvenuto tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi dei Settanta dopo i paesaggi urbani.
GR: Sì, sì, esatto. Non volevo specializzarmi esclusivamente nella pittura sulla fotografia.
NS: Perché c’era già troppa gente che lo faceva?
GR: No, non ne sono così sicuro. Forse non ce ne erano così tanti. Malcolm Morley era uno di questi, mi piacevano le sue immagini. Ma ciò è avvenuto solo dopo Warhol.
NS: Perché volevi realizzare dipinti astratti? Tu hai una reputazione e un mercato come pittore.
GR: Forse perché sono un po’ incerto e diciamo così “in aria”. E sono sempre stato affascinato dall’“astrazione”: è così misteriosa, come una terra inesplorata.
NS: Dunque vedi l’astrazione come una sorta di sfida?
GR: Sì, come qualcosa che non mi lascia in pace. Essendo cresciuto nella Germania dell’Est, effettivamente pensavo che fosse solo spazzatura, che i dipinti astratti non avessero senso. Ma mi interessavano e potevo sempre confortarmi con la musica, che è astratta, quando però non ti capita di cantare un canzone. Succedeva così. Avevo bisogno di percepire lentamente la strada che mi si prospettava.
NS: A metà degli anni Settanta, hai iniziato una nuova serie di dipinti con un tipo di astrazione detta “Construction”, che ai miei occhi diventa un’azione intenzionale.
GR: È vero. All’epoca era un po’ pensato, intenzionale appunto. Dopo è diventato un atto più libero.
NS: Da dove proviene questa immagine?
GR: Fantasia. Un ghiribizzo.
NS: Ha una forte qualità tridimensionale e architettonica.
GR: Sì. Alcuni dipinti astratti posteriori sono stati concepiti nello stesso modo, con linee costruttive e scorci, architetture o come immagini fantascientifiche.
NS: Dunque il termine “architettonico” proviene da un interesse nei confronti dei primi dipinti modernisti o dall’architettura, oppure dalla forma?
GR: Forse dal primo Modernismo, c’era molto lì che ancora non conoscevo. Comunque, su tutto, la decisione di seguire il mio istinto per me era importante, la decisione di accettare delle cose che non erano giustificabili e che non potevano in alcun modo essere legittimate in alcun modo. Ho cominciato alla fine degli anni Settanta con alcuni dipinti di piccolo formato, che ho esposto nel 1978 alla galleria Halifax — senza fare alcun danno… Però mi ha sorpreso il fatto che alcune opere rozze, incomprensibili, furono prese in considerazione come quelle precedenti.
NS: Credo che tu una volta abbia detto che l’eleganza va bene nella scienza e nella matematica, ma non in arte. Perché?
GR: I matematici discutono di soluzioni eleganti. Mi piace, ma di solito è una qualità del mondo del design, dei mobili raffinati e dei vestiti. Anche se non mi dispiace quando la gente descrive i dipinti con l’aggettivo “elegante”: dopo tutto, i miei pannelli grigi hanno un aspetto molto elegante.
NS: In scienza e matematica, la parola elegante è riferita alla soluzione chiara di un problema, che appunto viene definita una “soluzione elegante”.
GR: In tedesco anche… è una soluzione elegante, che vuol dire corretta, chiara e serena. Sì mi piace questo modo di definire le cose.
NS: Se pensi all’equazione matematica o a un esperimento scientifico, si tratta di rendere visibile ciò che è conosciuto o che non lo è, ma appunto in una forma visibile. Pensi che dipingere sia svelare ciò che è sconosciuto… o viceversa?
GR: Oh sì, “l’ignoto in pittura” — così lo si definiva. Ma in realta il “conosciuto” che noi vediamo e sperimentiamo, che ci influenza e a cui dobbiamo reagire, è la cosa più importante. E finché non lo capiremo e saremo in grado di averci a che fare, si trasformerà sempre nello sconosciuto, in ciò che era. Ed è intrinsecamente entusiasmante.
NS: In Kandinsky, e possibilmente anche in Mondrian, esiste una connessione fra l’astrazione e l’idea di utopia. Per te l’utopia non è ispirazione o è qualcosa di più concreto?
GR: Non conosco alcun dipinto che mostri l’utopia o una cosa utopica.
NS: Allora cosa ti comunica Mondrian?
GR: Buone proporzioni. Una buona idea… la decisione coraggiosa di realizzare quello che fa.
NS: Una volta ti sei riferito ad alcuni pittori astratti americani come Ryman. Pensi a te stesso come parte della tradizione europea o americana?
GR: [ride] Più europea.
NS: Perché?
GR: È difficile da dire. La prima volta che realmente ci ho fatto caso, che mi ha colpito, è avvenuto mentre mi trovavo con Blinky Palermo a New York, intorno al 1972. E all’improvviso, insieme, abbiamo realizzato di essere europei, che noi pensiamo in modo diverso — possediamo più sculture e incertezze… Gli americani ne l’uno né l’altro.
NS: Cosa c’era di europeo in Palermo?
GR: Forse qualcosa di più bramoso, più tragico e incerto.
NS: Vuoi dire che gli americani non nutrono incertezze?
GR: Non ce le avevano, o meglio questo era il modo in cui li vedevamo. In ogni caso, loro sono molto più sicuri di noi.
NS: Che cosa ti piace dei dipinti di Palermo?
GR: Il loro aspetto qualitativo. [ride] Tutte quelle cose che mi piacciono. Una volta Heiner Friedrich mi ha detto: “Un dipinto non dovrebbe mai essere interessante”. Questo mi ha veramente bloccato. E continuo a esserlo oggi. Palermo non è interessante. Eccetto la provocazione che è inevitabile. Per esempio, quando la gente vedeva un’immagine cucita a un’altra la trovava provocativa, perché all’epoca gli artisti erano focalizzati sulla pittura. E c’è qualche somiglianza con Barnett Newman. Quella sorta di interessante che non si può evitare, che sta leggermente oltre il limite, perché è ancora molto inusuale.
NS: Pensi che tutto sia interessante per la ragione sbagliata?
GR: Be’, queste cose, in un certo senso, erano nuove e dunque interessanti, sia che i dipinti fossero buoni o cattivi. E ciò non può essere utilizzato in maniera deliberata.
NS: Dunque nei tuoi dipinti gli specchi sono solamente strategia?
GR: Non direi, è più un desiderio di sperimentare per realizzare un oggetto provocativamente perfetto, non troppo artistico: in sintesi fatto non a mano e molto semplice.
NS: Per me sono fra i tuoi lavori più complessi.
GR: E per questo non sono amati dalla folla, mi ricordo la mostra al Guggenheim di Berlino: il pubblico era un po’ stupefatto, non è stato un successo… ma era una bella stanza, l’hai vista?
NS: Sì… Io penso sia un corpus interessante perché sembra così perfetto, ma quando sta in piedi nello spazio è molto inquietante. È fisico, ma non sei nemmeno certo di che cosa tu stia guardando. I lavori del 2002 rappresentano la continuazione di quelli su vetro e di quelli grigi. A me piace la scultura con la doppia superficie in vetro. Perché l’hai fatta?
GR: In questa scultura una superficie è perfetta, l’altra somiglia ai dipinti grigi. Così si crea qualcosa di affascinante, ovvero lo spazio in mezzo.
NS: Perché il vetro?
GR: La perfezione e l’inarrivabilità sono così affascinanti, li definirei quasi non umani. Ricoperto all’interno di grigio, non c’è niente di più freddo, e nonostante ciò riflette ancora la bellezza e dà l’immagine perfetta dello spazio occupato dal Visitatore, solo in maniera un po’ vaga.
NS: Qual era la tua motivazione quando hai realizzato i 4 Panes of Glass?
GR: Volevo mostrare il vetro di per sé. E fare in modo che si potessero toccare, ecco perché erano rivoltabili. Inoltre avevano qualcosa a che vedere con Duchamp. Rappresentavano una sorta di dialogo polemico nei suoi confronti, dato che ha realizzato quasi esclusivamente lavori molto misteriosi…
NS: Dunque volevi affrontare Duchamp?
GR: Sì, un po’, come con Ema. Mi ricordo che il suo Nude Descending a Staircase fu pensato come la fine del processo pittorico.
NS: In sintesi volevi che il medium pittorico potesse entrare in contatto con l’emotività umana, pertanto non con il linguaggio astratto internazionale.
GR: Sì.
NS: Esistono soggetti che non puoi dipingere?
GR: Be’, non credo esistano soggetti che non possano essere dipinti, ma ci sono molte cose che io personalmente non posso dipingere.
NS: Molti tuoi lavori affrontano la storia della tua vita e della Germania nel periodo postbellico, ma non hai mai realizzato un quadro sull’Olocausto.
GR: No, non espressamente. Ho fatto qualche tentativo, e insieme a Konrad Fischer una volta abbiamo pensato di ideare una mosta, ma non riuscivamo a trovare la formula adatta, che fosse sostenibile e non spettacolare. Questo tema è troppo scottante.
NS: Per questo motivo hai desistito?
GR: Sì… Ho ancora una fotografia sul muro. Ma non ha senso parlarne, la dovresti vedere.
NS: Penso che hai sposato a pieno un’espressione di John Cage: “Non ho niente da dire e lo sto dicendo”.
GR: Sì, un pensiero del genere esprime perfettamente la mia riluttanza a parlare, inoltre è perfetto per descrivere le parole ridondanti che spesso vengo spese. Ma soprattutto, secondo me Cage è fondamentalmente un grande musicista. Il modo in cui utilizza le opportunità, sia in I Ching o con i rumori quotidiani… Anche la prima nota dà la sensazione di un suono senza provocazione: tintinnii e scricchiolii random. Ma poi cominci a capire sempre meglio quanto sia meravigliosamente intelligente e sensibile, e quanto attentamente sia costruito. Fantastico.
NS: Per concludere, vorrei sapere perché hai ritratto così spesso la tua famiglia.
GR: Perché la conosco meglio di tutto il resto. [ride]
NS: Che cosa strana, non ci sono tanti pittori che lo hanno fatto.
GR: Forse mi prendo un po’ troppo sul serio.
[ride] … Senza dubbio ha che fare con la mia storia personale.