Singolare destino quello di Gina Pane, artista italo-francese di rara intelligenza che ha costruito tutta la sua poetica attraverso linguaggi differenti, ma con la costante di comunicare amore verso il prossimo, vicinanza, partecipazione. Nel 1968 con Pierres déplacées supera la fase d’esordio delle “Structures affirmées” (1965-1967), sculture minimal monocromatiche, e si indirizza sul rapporto uomo-natura consonante all’esperienza poverista di Giuseppe Penone. Lavorare sugli alberi. Le date sono le stesse, come i luoghi. Gina Pane nasce a Biarritz nel 1939; a Torino e Milano lavora ed espone le prime installazioni come La Pêche endeuillée (Galleria Diagramma, cioè Luciano Inga Pin) o l’anno dopo nel 1969, realizza da Franz Paludetto opere fondamentali come Stripe Rake o Deuxième projet du silence.
Dopo le prime esperienze con la scultura, Gina Pane contribuisce all’ambiente culturale da cui nasce l’Arte Povera: i suoi interventi sul e nel paesaggio vengono documentati da sequenze fotografiche, le basta scostare le pietre dall’alveo del torrente, verso il sole e la luce, o farsi riprendere tra la terra e il cielo, Situation idéale (1969). La pesca a lutto in memoria dei pescatori giapponesi morti durante gli esperimenti americani, e lo straordinario Dessin verrouillé in cui all’interno di una scatola di ferro si nasconde un disegno sconosciuto, sono momenti di una stagione artistica dura e pura come era Gina Pane. In particolare nel Dessin c’è chiaramente una memoria duchampiana e manzoniana (Piero, naturalmente), ma già compaiono i tagli suturati, le saldature del contenitore sono già ferite che possono rimarginare ma restano come traccia, memoria della ferita. Per Gina l’arte è amore, donazione, apertura totale alla natura — oltre che agli altri uomini — come madre e sentimento originale. Lo “scandalo” lo producono le sue azioni come Death Control (presentata nel 1974 addirittura nel salotto dell’arte della Fiera di Basilea, sempre con la galleria Il Diagramma), Psychè (1974) o Azione sentimentale (1973) in cui le spine delle rose sono simboli di un tormento sospeso tra la religiosità e la condizione femminile. L’artista era religiosa e la sua è un’arte sacra. Naturalmente la sua visione non era certamente illustrativa ma fondativa di una spiritualità contemporanea in cui l’arte doveva avere un ruolo determinante. Gina Pane è un esempio per tutti e se qualcuno si attarda ancora a identificarla con le sue memorabili performance (Actions, si dovrebbe dire), dovrebbe considerare l’intero suo lavoro. Ha saputo utilizzare in modo simbolico il proprio corpo esattamente come Gesù Cristo, al di là delle verità storiche e delle credenze. Per questo ha operato negli anni Settanta nella Body Art proprio alla ricerca di un equilibrio dialettico con il pubblico, di un suo coinvolgimento fisico ma soprattutto mentale. Ha anche saputo mettere in chiaro i limiti della rappresentazione, tenuto una certa distanza dagli spettatori, magari con lo sguardo nascosto da occhiali scuri se non a specchio.
Quando all’inizio degli Ottanta nascono le “Partitions”, cioè delle installazioni, spesso a parete, che recano anche parzialmente tracce di opere precedenti o delle stesse azioni, l’artista abbandona per limiti fisici l’uso del proprio corpo come linguaggio. Ritorna alla scultura, ma con l’esperienza performativa alle spalle. È questa la produzione che accompagna Gina Pane fino alla scomparsa prematura nel 1990. I soggetti delle opere sono spesso i santi, anzi i martiri, cioè coloro che hanno dato la vita per la fede e per l’umanità. Le fonti sono varie, anche provenienti dalla storia dell’arte. In San Giorgio e il drago (1984-1985), opera ispirata a un dipinto di Paolo Uccello, il colore e le geometrie rappresentano una scomposizione del dipinto dell’artista toscano, sintetizzando l’uccisione, il sangue appena accennato, il superamento del bene sul male. E così altri lavori ispirati a particolari di opere di Hans Memling o di Filippino Lippi, senza scadere nella citazione ma cercando sempre di decrittare l’iconografia attraverso una sintesi linguistica, trasformando tutto in qualcosa di diverso di attuale e di unico.
Le “Partitions” sono realmente il lavoro di Gina Pane ancora da comprendere nonostante le esposizioni internazionali e italiane (Milano 1985, Reggio Emilia 1998, Nantes 2009 fino all’attuale completa retrospettiva del Mart di Rovereto). Non si può comprendere il lavoro dell’artista senza quest’ultimo decennio in cui con la consueta intelligenza ha sviluppato il suo percorso di approfondimento dei temi del sacro nel mondo contemporaneo. Ha scritto Gina Pane in Lettre à un(e) inconnu(e): “Oggi rivendico il religioso e tengo al fatto che questa parola sia corretta etimologicamente parlando, rispetto al mio lavoro. Inutile dire che il termine non è legato a nessuna pratica istituzionalizzata ma, al contrario, sono io a fornire gli indizi per cui questa dimensione religiosa sia connessa alla vita comune degli esseri umani”. La volontà di dare valore antropologico all’arte contemporanea senza trascurare la Storia dell’Arte come memoria dei segni accumulati attorno all’idea della rappresentazione dell’invisibile, è la caratteristica di una poetica sempre lucida e rigorosa. François d’Assise trois fois aux blessure, stigmatisé. Vérification version 1 (1985-1987) mette insieme l’idea del corpo, del passaggio dalla terra al cielo, dell’ascensione, della ferita o delle stimmate come collegamento con il divino attraverso materiali come il ferro o il vetro che diventano altrettanti simboli di cambiamento. Le lastre di rame, ottone e ferro recano le tracce dei corpi dei santi, delle lacerazioni, della sofferenza, dell’offerta del proprio corpo come dono per l’umanità. Nella Chair ressuscitée (1988-1989) Gina Pane nei passaggi tra i materiali e le simbologie del corpo di Cristo che muta attraverso vari stadi fino alla smaterializzazione, elabora uno dei vertici dell’arte contemporanea per capacità espressiva e di sintesi, affrontando un tema di una difficoltà straordinaria. Gina Pane non ha mai avuto paura di affrontare il sublime, l’indicibile, e tutte le soglie che mettono in comunicazione il visibile dall’invisibile. Il divino è sempre visto dalla parte dell’umanità, ha sempre un legame con il sangue e la terra, con la linfa del mondo. La Prière des pauvres et le corps des Saints (1989-1990) è un’installazione di nove vetrine contenenti i simboli e i corpi di altrettanti santi. Sono bare di cristallo, trasparenti e rarefatte. Con la chiarezza e icasticità che le sono state proprie, Gina Pane ha creato un suo piccolo cimitero di eroi morti per la fede, ha racchiuso nelle teche tutto il suo amore per gli uomini e vi ha riflesso la sua visione dell’arte e della propria vita. I simboli sono a disposizione di tutti, il pubblico gira attorno alle teche-bare come se si recasse in un camposanto ideale. Vengono in mente i versi del Cimitero marino (1920) di Paul Valéry: “Magra immortalità nera e dorata / consolatrice orrendamente ornata / che della morte fai un senso materno…” La misura di questa meditatione sta tutta nella capacità dell’artista di dare emozioni e silenzio, limitando il pathos a pochi elementi, a evocazioni che non stringono la gola ma parlano al cuore e alla mente. Mai l’arte contemporanea è stata così importante, così legata al senso della vita e del destino dell’uomo, così carica degli enigmi che le religioni istituzionalizzate riducono a catechismi e a baedeker per l’aldilà.
In Gina Pane il mistero rimane ed è da condividere con gli altri attraverso l’arte, che è contemporanea proprio perché non si mescola con la sociologia e non si consuma nel presente.