Pubblicato originariamente in Flash Art no. 10, Marzo 1969.
Orizzontalmente, l’universo design può anche esplodere: riguarda l’ideologia: la produzione di oggetti può accentuare, come accentua, la sua conversione in coordinamento delle strutture ambientali: riguarda l’ideologia: e le finalità rivoluzionarie dell’estetica applicata alla produzione industriale possono rivelarsi miseramente dissolte nell’ottimismo consumistico di un fenomeno di moda: è ancora l’ideologia che perde. Via via che le illusioni collegate al design cadano, subentra l’evidenza di disporre di una area operativa, di incidenze reali ed espanse, sulla cui determinazione sociale applicare un pensiero evolutivo. Sono certi valori (vecchi) che cadono, o si trasformano, lo sappiamo; ma come verificare le trasformazioni e accertare l’insorgenza dei prossimi valori appare ancora incerto, è problema da risolvere, forse è il problema Un pensiero evolutivo non potrà — pur riservandosi un giudizio negativo sulle degenerazioni patenti del design — non considerarlo elemento strutturale, campo d’indagine, zona di rivelazione, abbastanza denotanti nella fenomenologia sociale da assumerlo con maggior impegno nel proprio orizzonte critico — naturalmente, non più disgiunto da altre discipline affini. Dissoluzione dei tradizionali compiti affidatigli. Per contro, design come effrazione dell’omertà tra consumatori (oggetto contro oggetto), come adeguamento dello spazio privato con quello pubblico (ambiente interno verso ambiente esterno), e, non meno importante, come area d’accertamento, perché mobile quanto il gusto e aderente alle minime sollecitazioni del processo produzione-consumo, dei fenomeni più immediati che il passaggio dalla civiltà industriale, tecnologica, alla civiltà dell’automazione, post-tecnologica, comporterà entro breve tempo. In altre parole, assunzione dello spessore linguistico del design, cosi come si è stratificato sul versante sociologico.
Concretamente, allora, Milano offre già una visione dialettica di tale spostamento: qui, la progettazione estetico-industriale va dal più plateale ricalco dei bisogni conculcati, all’invenzione critica e tecnicamente avanzata di modelli di comportamento non-convenzionali, all’intenzione, infine, di riproporre con rimandi alla mitologia personale la prospettiva di un rinnovamento della mitologia collettiva. E indico la città e l’insieme di operatori che maggiormente hanno contribuito al cosiddetto design from Italy, realtà che supera il semplice fenomeno di moda internazionale per mettere l’accento sui prossimi, probabili, compiti che la disciplina stessa vuole riconoscersi. Per i singoli disegnatori industriali si tratterebbe poi di precisare l’individuale alfabeto di «segni» posto in atto per assolvere a tali compiti. In maniera tale che la stessa critica disponesse — prima ancora che i mutamenti si codifichino in stile e oggetti di consumo — di precisi criteri teorici per valutarli. Ora, per esempio, come interpretare i tentativi di un numero crescente di designers volti ad agire su di una nuova e più vasta scala d’intervento? È l’interrogativo posto dall’opera di Joe Colombo.
Premesso che l’attuale fortuna del disegno industriale italiano riguarda essenzialmente il «furniture-design», ed assistiamo verosimilmente alle ultime battute di un design concepito come produzione di oggetti isolati e scaduto, volenti o no, in un fenomeno di moda, Joe Colombo indirizza l’intera sua attuale ricerca sul disegno di arredi-attrezzature, sulla programmazione degli spazi abitativi. Discorso ampiamente affrontato a livello teorico, e proiettato nell’ipotesi di lavoro applicato alla «grande scala pubblica» con l’environmental design, ma scarsamente realizzato in una prassi che vede, anche, soprattutto, nell’immagine del Design from Italy diffuso all’estero, persistere dell’«ameublement; e stranamente, è «la grande scala privata» che viene un po’ dovunque aggirata, dimenticata. Mentre la progettistica si riversa sull’espansione delle strutture ambientali, design verso ambiente, verso urbanistica ecc., l’idea di abitare tende ad eludere le soluzioni applicate, con concreti mutamenti, agli spazi interni. I monospazi concepiti da Joe Colombo l’affrontano in pieno: casa come contenitore fisso, spazio unico senza pareti, attrezzature autonome e componibili, un’architettura di oggetti permutabili, Nel «Sistema programmabile per abitare» esposto all’ultima Triennale, ed ora in Box 1, blocco abitabile individuale, L’anti-arredamento si fonda sulla programmata mobilità spazio-temporale; gli elementi si costituiscono e si strutturano secondo una prospettiva antidesign che Colombo sta elaborando su tutti i fronti della sua attività, compresa la coordinazione dell’Immagine aziendale.
A Parigi, lo scorso anno, Colombo ha realizzato un negozio di design con questi criteri: non più show-room ma bazaar, con attrezzature espositive tubolari, che demistifichi la preziosità del prodotto, alla stessa stregua deI multipli d’arte compresenti, in un ambiente spersonalizzato. D’altronde, Colombo ha introdotto i prodotti nei grandi magazzini fin dal ’66 (mostra Kartell alla Rinascente), primo fra i designers a ricercare la grande diffusione. Nel ’67 espone con Gae Aulenti al magazzini Gimpels di New York e partecipa con la selezione italiana al magazzini Lafayette di Parigi, esposizione patrocinata da Domus. È ancora in un grande magazzino —Macy’s di New York — che verrà presentato il suo Box 1. Se è possibile parlare di antidesign, lo potremo verificare dunque nell’inversione di marcia opposta ai fenomeni degenerativi, all’obsolescenza materiale e psicologica, alle mistificazioni.
Ma Joe Colombo ne ha già avviato il discorso fin dalla fase ideativa-costruttiva, che lui tende a collimare direttamente con i risultati della ricerca scientifica applicata, con le forme e i processi offerti dall’evoluzione tecnologica; il suo disegno strenuamente tecnico, le sue forme a cui la funzionalità non toglie la sorpresa di certi segni formali creati dalle macchine (la molla Inox della lampada Spring, la sedia in plastica della Kartell stampata in un sol pezzo), derivano da un continuo porsi a contatto con le fonti dei processo costruttivo.