Si tratta principalmente di elementi visivi. L’idea non è tanto il risultato di un processo “intellettuale” quanto di un processo di “visualizzazione”, tuttavia compio anche uno sforzo cosciente per non escludere nessun altro potenziale elemento del processo stesso.
1965
La mia tendenza è ridurre, o sviluppare, tutto per ottenere “elementi unici”, elementi che non fanno riferimento ad alcunché, salvo se stessi, ma che al contempo si riferiscono o si rapportano a tutto.
Giugno 1966
Naturalezza, sincerità, presentazione naturale delle cose; ciò che una cosa fa e ciò che è, dovrebbe essere la stessa cosa. È questo che conferisce una presenza o una unità. Un’opera dovrebbe essere originata in modo naturale, in modo da essere osservata o percepita in modo naturale.
Gennaio 1968
Voglio realtà nella mia arte, tangibilità, credibilità (non “illusionismo” o irrealtà). Questo significa la rappresentazione di oggetti solidi o è possibile che la forma “pura” abbia questo carattere di realtà? L’arte egizia è super “materiale”, ma al di là della materialità l’elemento veramente reale è l’essenza spirituale.
Aprile 1968
Marianna Vecellio: Da dove vogliamo cominciare? So che non le piace parlare del passato.
JMC: Di solito no, ma a volte ne parlo. Più che altro perché il passato incide sul presente e anche sul futuro. Dal momento che in un certo senso il tempo è un continuum e non esiste un vero passato e nemmeno un vero futuro, non mi dispiace parlare del passato.
MV: Come ha scoperto di voler diventare un artista?
JMC: È una domanda piuttosto complessa. Prima di capire che avrei voluto fare l’artista, ho passato un certo periodo in Marina, ero imbarcato su una nave della Marina Militare.
MV: Faceva l’operatore sonar.
JMC: Ero in fondo alla nave in una postazione sonar e mi sono chiesto cosa intendessi veramente fare, tutto qui. Fino ad allora avevo fatto un po’ di tutto e decisi che sarei diventato un artista e che avrei cominciato a studiare arte. Ho deciso di farlo e basta. Non sapevo cos’altro fare. Non sapevo cosa mi aspettasse e cosa fosse un artista fintanto che non mi sono iscritto al California College of Arts and Crafts (CCAC) e allora ho iniziato a capire cosa volesse dire fare l’artista; l’idea che mi ero fatto delle arti applicate era un po’ commerciale.
MV: Nel 1962, accanto a una più ampia produzione di dipinti astratti modernisti, lei ha realizzato delle insolite composizioni scultoree, una sorta di assemblaggi alla maniera di Jean Tinguely o di Louise Nevelson, composte da pezzi di legno portati a riva dal mare e altro materiale di scarto trovato sulla spiaggia.
JMC: Quando frequentavo il College in California, scendevo spesso in spiaggia dove c’era abbondanza di legni portati a riva dal mare e mi divertivo a farne qualcosa.
MV: L’atmosfera della California l’ha aiutata a sviluppare la consapevolezza e le conoscenze che le servivano per diventare artista?
JMC: Mi ha influenzato molto l’ambiente artistico californiano, mi ha aiutato a crescere. Era il posto giusto dove vivere in quel momento. A quei tempi pensavo che fosse importante stare a New York ma mi trovavo a Los Angeles ed era lì che vivevo. Era perfetto: automobili, surfisti, un po’ di tutto e le idee…
MV: Chi erano gli altri artisti nel suo entourage all’epoca?
JMC: Tony DeLap, Larry Bell, Joe Goode, Ed Ruscha, Robert Irwin… Ho una pessima memoria per i nomi, c’era anche qualcun altro…
MV: Aveva l’abitudine di incontrarsi per parlare di arte con qualcuno di loro, un po’ come facevano gli artisti della New York School negli anni Cinquanta, che si ritrovavano nei bar e nei locali per scambiarsi le idee?
JMC: Entro certi limiti sì, incontravo di quando in quando altri artisti ma non erano dei veri e propri appuntamenti nei locali pubblici. Ho memoria più che altro di sensazioni astratte di incontri immaginari; immaginavo di conversare sia con gli artisti di New York che con quelli californiani e leggevo Artforum e altre riviste d’arte per vedere le loro opere.
MV: John Coplans è stato uno dei fondatori di Artforum nel 1962 a San Francisco e poi si è trasferito a New York. Lei ha detto spesso di sentirsi più vicino al Minimalismo che al Finish Fetish, ma è rimasto in California invece di trasferirsi a New York.
JMC: Almeno per un po’. Per me non esiste alcuna netta distinzione tra Minimalismo e Finish Fetish — quest’ultima è una definizione curiosa. Non erano le terminologie artistiche a interessarmi. Ciò che volevo era ridurre quello che stavo facendo, ridurlo al minimo, all’essenziale e fu così che finii per pensare alle “Planks” [assi, ndr]. Prima di allora facevo lastre, blocchi geometrici e così via, e d’un tratto mi sono ritrovato a pensare e realizzare dei pezzi di compensato appoggiati al muro. E mi sono detto: “Oddio, credo che ci siamo!”. Ero finito nella trappola riduttiva minimalista: quella di rendere le opere il più semplici possibile e farle come si deve, far sì che si reggessero o che stessero al mondo, che conversassero con quelle di altri artisti e fossero capaci di vivere. Le volevo più semplici possibile ma anche splendide e in un certo senso seducenti.
MV: Vorrei per un attimo approfondire il concetto di “seducente” e di bellezza. Ritiene che possa essere questo che distingue le sue opere da quelle del Minimalismo ortodosso? Il Minimalismo sembra esprimere la riduzione della forma attraverso un linguaggio e un approccio più impersonali. Questo genere di sensibilità, l’approccio più percettivo, il processo intuitivo e la finitura, erano forse ciò che rifiutavano Donald Judd e gli altri minimalisti con quegli “specific objects”, termine con cui i minimalisti, o più precisamente Donald Judd aveva definito le sue opere?
JMC: Direi che per le loro opere fosse appropriato il termine “noioso”, non che fossero di fatto noiose, ma magari meno emozionanti delle mie. Le loro erano forse più intellettuali, basate su idee più intellettuali, ma non è detto.
MV: Rispetto a loro forse lei aveva più affinità con gli espressionisti astratti come Mark Rothko e Barnett Newman. Lei non ha mai considerato Duchamp?
JMC: Non molto. Solo alcuni surrealisti. Ma uno dei primi artisti dai quali mi sono sentito attratto è Barnett Newman. E prima ancora Piet Mondrian; e ancor prima mi avevano affascinato le opere degli antichi egizi, le loro sculture e i loro templi.
MV: Una volta ha detto che Jackson Pollock è un artista minimalista perché usa solo ciò che gli serve, solo ciò che gli è necessario. Questo si ricollega di nuovo all’idea di riduzione. Non è che la sua opera si rifà in modo simile a questa idea del Minimalismo?
JMC: Pollock è essenziale, emozionale e complesso, ma allo stesso tempo lo considero anche un minimalista — usava solo ciò che gli serviva. Potrebbe essere fuorviante perché, visti così, tutti gli artisti potrebbero essere minimalisti, o espressionisti astratti. Ogni definizione tende per così dire a disfarsi.
MV: Riprendiamo dall’inizio; dopo la serie dei dipinti a motivi geometrici, la sua opera dal 1964 al 1967 si è andata “radicalizzando”. Dalle prime opere, come Slate (1964) — un dipinto appeso al muro che inglobava un elemento scultoreo nella superficie bidimensionale — è passato a Dog Star (Sirio) (1964) — un “quadro” a due facce, a tutto tondo e appoggiato direttamente sul pavimento; dalle opere bicolori su piedistallo, esposte alla Nicholas Wilder Gallery di Los Angeles nel 1965, è passato ai blocchi geometrici e alle lastre monocrome e a tutto tondo, lavori esposti lo stesso anno alla Robert Elkon Gallery di New York; e ancora, dalle opere con valenza architettonica e simbolica, come Yellow Pyramid e Blue Post and Lintel I, entrambe del 1965, è passato nel 1966 alle “Planks”, espressione di una riduzione estrema, esposte alla Wilder Gallery l’anno successivo. Nell’arco di soli tre anni e mezzo ha realizzato alcune delle sue opere più significative che attestano la trasformazione dell’opera d’arte da oggetto “pittorico” a “dispositivo” scultoreo, sollevando così l’interrogativo sull’opera d’arte come oggetto variabile e radicale, la cui specificità è costantemente in una fase di transizione tra forme e stati diversi. Come è potuto accadere tutto questo?
JMC: Quanto è accaduto è un mistero anche per me. Non l’avevo programmato. I quadri per un certo periodo presentavano forme che potremmo definire organiche e che in seguito si sono andate irrigidendo con motivi più definiti e geometrici, per diventare, in una fase ancora successiva, una sorta di pannelli con delle profilature di una drammaticità estrema, opere con intarsi in lacca, di una certa fisicità pur trattandosi sempre di superfici piane. Ho cominciato poi a creare delle fenditure con profondità diverse per cui le opere si articolavano su due lati, diventando bidimensionali/tridimensionali, e poi è stato come se si fossero concretizzate; una cosa effettivamente un po’ strana ma è successo e quando ci ho ripensato e mi sono reso conto di tutto quello che avevo fatto ero un po’ perplesso. Chi è che lo ha fatto? È stato come un’evoluzione, un’alterazione dalle cose piane a quelle geometriche, ai rilievi per arrivare infine agli oggetti concreti, opere bidimensionali/tridimensionali, con una crescente presenza della scultura che diventava fin dall’inizio un tutt’uno con la pittura. È venuto tutto da sé. […]