Saper guardare un’immagine sarebbe, in qualche modo, divenire capaci di distinguere dove essa brucia, dove la sua eventuale bellezza serba il posto a ‘un segno segreto’, a una crisi irrisolta, a un sintomo.
Georges Didi-Huberman, “L’image brûle”, in Images et religions du livre, Art Press Spécial n° 25, 2004.
Sebbene nella penisola si avverta la mancanza di una riconsiderazione dell’elemento figurativo-oggettuale, propria di altre scene in cui è meno incalzante il “peso” di una tradizione storicoartistica, è pur vero che la riflessione operata sui presupposti duchampiani si basa su considerazioni di ordine differente. Partendo dall’indagine fenomenologica, l’oggetto viene reinterpretato alla luce di un dato emotivo, fondato su un’oscillazione incessante tra diversi livelli della coscienza. L’interpretazione esegetica prevede un approccio all’opera che non smette mai di costituirsi e di dissolversi, differenziando ciò che è passibile di essere compreso dal soggetto e ciò che, invece, rimane inafferrabile. In questa prospettiva, la tradizione concettuale e materialistica tipicamente italiana si muove sull’asse Lucio Fontana – Piero Manzoni – Gianni Colombo secondo una sensibilità differente, quasi poetica, che pare subire l’influenza di certe suggestioni “deboli” proprie degli anni Novanta. Tali aspirazioni, ora, cercano un riscatto formale più assertivo, basato sulla rinnovata fiducia nell’oggetto e sulla capacità di inserirlo attivamente nello spazio per attuare una pratica di resistenza. Nella codificazione di un linguaggio differente, ci troviamo dinanzi a una ricerca attuale che nasce da un gioco tra continuità e rotture e che, pertanto, è volta a un confronto critico e dialettico con la tradizione. A conferma della sua natura aperta, il dialogo si evolve e modifica rispondendo a differenti sollecitazioni: a dispetto dell’odierna situazione di crisi vi è la necessità di elaborare una risposta sia perturbativa che fondativa, tale da postulare un diverso atteggiamento nel futuro prossimo.
Nelle prove di molti autori non vi è pertanto mai sottrazione del visibile, sebbene sia ridotto all’essenziale secondo una declinazione che potremmo definire lirica, ma vi è la restituzione selettiva delle condizioni d’emergenza che lo rendono possibile. In questa riflessione è necessario entrare in una zona limitata della percezione e accettare che lo spazio divenga in parte un’astrazione e che sia sospeso tra l’ubi consistam e il tempo. Il prezzo pagato dal visibile è quello degli oggetti, pratiche operative nello spazio, che si dilatano nella loro consistenza, schierando l’affezione, la sensorialità e la mobilità dei sempre provvisori centri dell’immaginazione, nuclei di queste forze di azione e reazione. Quella che viene qui condotta e ipotizzata è pertanto una disamina che ha come fondamento quella teoria delle emozioni, già preconizzata da Jean-Paul Sartre, applicata alla produzione plastica attuale in Italia. Quest’analisi dell’immagine e dell’emozione, articolata sul presupposto della differenza tra l’esistenza inerte della cosa e l’esistenza libera della coscienza, viene effettuata attraverso una rilettura della fenomenologia. Nulla di troppo automatico o autoreferenziale, come potrebbe essere una disamina scientifica del fenomeno, nulla di troppo fisico od organico, vicino a certa corporalità. Quello che vuole essere teorizzato è un approccio diverso al dato sensibile, alla costituzione stessa dell’opera, che si avvale più dell’aspetto emozionale che analitico, ricercando una valenza sensoriale che rifiuta facili intellettualismi o divertissement. L’intervento plastico si connota per una sua apparente leggerezza, in realtà deposito disincantato per gesti densi di poesia. Vorrei, dunque, porre attenzione all’opera in sé e non alla nozione di “campo” di Pierre Bourdieu e alle implicazioni non spirituali che questo comporta, per recuperare la valenza simbolica che, nell’opera plastica, ha una sua specificità. Si evidenzia, così, un recupero di quella sintesi fra una contemplazione delle essenze di Husserl e il disegno ontologico di Heidegger, nel quale egli coglieva il momento prima nella “trascendenza”. In questa prospettiva, l’attenzione verso la cosità dell’opera e la sua stessa materialità si elevano a un grado superiore di conoscenza.
Essere in medias res, significare nel mondo, produce dei riflessi mentali che possiamo considerare come la vita stessa: diveniamo il nostro pensiero, la nostra condizione emotiva o razionale dinanzi ai mutamenti della realtà. In molte proposte della generazione italiana, invece, l’esperienza e lo stato d’animo indotto diventano punti di partenza per elaborare strategie estetiche che giungono a definire e a plasmare tale condizione metamorfica. In questa trasformazione, la stratificazione del gesto è sempre culturale: un atto ripetuto incessantemente in maniera consapevole, che lascia sedimentare la forma attraverso un processo di sottrazione. A fronte di una visione che si dà sempre più come esperienza disturbata, imperfetta, interrotta, priva di garanzie e di stabili sistemi di identificazione, la materia trova il suo punto di forza, per un recupero del dato estetico e formale dell’opera, nell’annullamento della distanza della ricezione. La reciprocità di ogni elemento strutturale comporta, infatti, sempre un’azione retroattiva: ciascuna posizione, se traslocata o alterata, introduce nuovi assestamenti e ulteriori significati. In questa prospettiva, l’asse emozionale-sensitivo coincide con quello percettivo-cognitivo, rifondando i processi di costruzione dell’opera stessa in un’accezione alternativa e ben più rispondente della semplice analisi retinica o concettuale. La rilettura non è più strutturale — alla Rosalind Krauss —, ma è emotiva: in questa prospettiva risulta quindi immanente e sensoriale il concetto stesso di “passaggio”, di transizione. Un’accezione che conferisce nuova importanza all’idea di durata secondo un’evoluzione: un cambiamento “caldo” del dato formale che si caratterizza attraverso il tempo e l’evoluzione delle caratteristiche fisiche dell’opera e dell’atteggiamento dell’artista.
Antecedenti quali Eva Marisaldi e Stefano Arienti o punti di riferimento come Félix Gonzáles-Torres, costituiscono esempi qualificanti di una tradizione che dalle sensibilità preromantiche si è sviluppata sino ai nostri giorni e che, nella particolare situazione italiana, si è sviluppata fra fragilità e versatilità di intenzioni.
Così, per Rosa Barba, i luoghi sono costruiti attraverso una narrazione immaginaria derivata da fatti reali, ma decostruita in una situazione immaginativa di tipo psicologico; l’attenzione si sofferma sull’asse temporale, attraverso quei momenti che interrompono, estendono, cambiano l’ordine precostituito e si avvalgono di margini, interstizi e interludi.
Il medesimo discorso vale per i lavori di Patrick Tuttofuoco che nell’ultima personale ha creato una costellazione di oggetti e soggetti assurdi, fuori contesto, a metà strada fra artefatti puramente materici e porte simboliche, aperte verso altre illusioni. Vi è, dunque, una tensione intermedia tra l’opera d’arte, l’oggetto vuoto e la sua cosalità: caducità e fallimento intrinseco di ogni tentativo di classificazione, che parte comunque da questo continuo porsi in discussione, sono volti alla costruzione inverosimile 52-di un “monumento momentaneo”, sorretto dal deterioramento, dalla consunzione anche affettiva dell’oggetto e dall’esperire, quale momento per una ridefinizione etica dell’operazione scultorea. Siamo sui medesimi parametri di Lara Favaretto, che realizza interventi plastici sottoposti a stress, condotti al loro limite fisiologico al fine di perderne il controllo: come conferma la stessa autrice, i suoi lavori sono “allucinazioni per percezioni senza oggetto”.
In una posizione più intimistica, ma altrettanto visionaria, si muove anche Alessandra Tesi, il cui reale indaga una dimensione incerta, all’interno della quale convivono il visibile e l’invisibile, il tangibile e l’inafferrabile. Desiderio, ossessione e memoria sono per l’artista forze capaci di modellare la materia, trasformando la realtà in un elemento duttile, i cui colori e le cui forme sono soltanto un riflesso più o meno distorto. Secondo quest’ottica, l’autrice si è interessata all’idea di crimine, inteso quale momento definito da un’intensa esplosione di energia: il crimine opera un drammatico taglio sulla pelle del reale. Un approccio fenomenologico ai materiali e allo spazio caratterizza anche la pratica scultorea di Paolo Piscitelli, che manifesta la necessità di tracciare e sperimentare nuove relazioni fisiche e psicologiche con i più differenti elementi del reale. La materia, sia essa elemento solido o processo dinamico, campo spaziale definito, entità eterea o vibrazione sonora, diviene per Piscitelli lo strumento attraverso il quale fare scultura, realizzare eventi plastici secondo due registri linguistici distinti, ma interagenti: da un lato la materia viene attivata in funzione di un’idea antiformale, un’esperienza percettiva che si compie con e attraverso la materia stessa; dall’altro essa viene manipolata e gestita al fine di farne un elemento linguistico capace di definirsi quale vettore di idee e di molteplici contenuti conoscitivi.
Il medesimo approccio, quasi linguistico, contraddistingue i lavori di Luca Trevisani, che muove dalla declinazione logicorazionale, attuando un recupero quasi archetipico delle suggestioni prima democritee e poi lucreziane sulla natura. Come un razionalista della “società liquida”, l’artista si concentra sulla tensione verso una verità ultima, che rifugge il divenire del tempo e il relativismo stesso dell’individualità scissa e conflittuale che di quel tempo, di necessità, non può che scorgere un segmento. La verità è come l’equilibrio, mutevole e viva, difficile e instabile. Sottoporre le forme pure alla corruzione, al dinamismo naturale è uno degli scopi ultimi della sua ricerca, volta alla rappresentazione di energie, ma di energie senza utilità, pure: stati di indeterminatezza, realtà aperte al flusso e alla propria determinazione tramite il mutamento. Sempre di energia si parla per Alberto Tadiello, nei lavori del quale, che si tratti di nostalgia dell’incontrollabile o di accesso alla testimonianza del sovvertitore, il procedere offre il vantaggio di un periplo doppio sulla realtà: vi si opera sopra uno svelamento, una manipolazione, un controllo per eccitarne cariche segrete e latenti. Sullo stesso fronte Nico Vascellari, che ricrea una dimensione nuova servendosi di un’azione recitativa, emozionalmente esposta, decisamente visionaria, che sprofonda nel suo essere struggimento musicale dentro l’universo spaziale da lui organizzato. L’artista sembra plasmare il suono come entità fenomenologica dalla forte componente emotiva: una sorta di tensione verso un’affettività perduta, verso quel recupero delle qualità sensoriali della conoscenza, vero messaggio alternativo.