“Vogliamo ringraziare con calore tutti coloro che hanno partecipato a questa avventura memorabile […] Ci scusiamo sinceramente con tutti i visitatori che oggi non saranno in grado di partecipare a Comedian”. Con queste parole, che commentano un post su Instagram dell’8 dicembre 2019, la Galerie Perrotin chiude l’annuncio della rimozione, per ragioni di sicurezza, dell’ultima opera di Maurizio Cattelan dalla parete del booth D24 di Art Basel Miami Beach, installata solo quattro giorni prima. 1 A colpire è l’uso insistito del verbo “partecipare”, invece dei più ovvi “vedere”, “fruire”, “fare esperienza di”: l’invito è a considerare Comedian un’opera partecipativa, che non si esaurisce nel gesto originario dell’artista – attaccare una banana al muro con un pezzo di nastro adesivo, attribuirgli un titolo e proporla sul mercato in edizione limitata – ma si sviluppa nella reazione del pubblico, della critica, dei media e del mercato. Un’opera che attiva delle relazioni, e che esiste nella relazione.
Ma qual è la natura di queste relazioni? E qual è la piattaforma sociale su cui si sviluppano? Nel settembre 2010, sulle colonne del magazine Art Fag City, il giovane artista americano Brad Troemel si chiedeva “cosa l’estetica relazionale potesse imparare da 4chan”2, sostenendo che le teorie introdotte da Nicolas Bourriaud in Estetica relazionale3 si applicavano, più che a qualsiasi opera d’arte, “all’attività anonima e collettiva su internet, dove le persone generano relazione e significato al di fuori di ogni gerarchia”. L’affermazione di Troemel, tuttavia, non va intesa come una provocazione. Ancora lontano dal diventare la tana dell’alt-right americano, all’epoca 4chan era un sito già frequentato quotidianamente da milioni di persone, e aveva fatto da culla all’attivismo mediatico di Anonymous e a molti dei più noti “internet memes”: questi, sostenuti dalla partecipazione senza freni e dalla massa critica degli utenti anonimi di 4chan, si diffondevano viralmente su altre piattaforme adeguandosi agli usi e alle applicazioni più diverse.
Interessato, come molti artisti della sua generazione, alla circolazione online delle immagini, Troemel aveva creato un sito Tumblr nel 2009, chiamato The Jogging 4, che sarebbe presto evoluto in una piattaforma collettiva, editata da un team di artisti e aperta a contributi dall’esterno. Attivo fino al 2014, The Jogging pubblicava per lo più collage digitali e foto di bizzarri assemblaggi, immagini che si posizionavano volutamente sul confine labile tra opera d’arte e “internet joke”: un MacBook acceso immerso in una vasca da bagno; una lattina di birra infilata in una baguette; una scarpa con un’uscita USB; una tastiera usata come pietra tombale; tanti readymade alimentari e tante, tantissime banane – con la zip, trafitte da altre banane, infilzate da una siringa, trasformate in espositori per orologi, e così via. Il tutto nella consapevolezza che, in un contesto come Tumblr, bastava pochissimo perché l’immagine, perso titolo, autore e qualsivoglia denominazione d’origine, approdasse agli “anarchici dell’immagine”, quel pubblico accidentale individuato da Troemel che rivela una “indifferenza generazionale verso il concetto di proprietà intellettuale”5. È grazie a loro che un’opera, divenuta semplice immagine, comincia a esistere al di fuori dell’arte: condivisa, commentata, modificata, ricostruita, remixata.
Le idee e i progetti di Troemel si collocano sullo sfondo di quella riflessione sul destino dell’immagine nell’era dell’informazione che, ora possiamo dirlo, ha costituito una delle linee di ricerca più autentiche dell’arte degli anni Dieci del nostro secolo. Anticipata dall’artista Seth Price nell’opera-saggio Dispersion (2002–), che si interrogava sulla natura di un’arte fondata sui media distribuiti6, e dallo stesso Bourriaud in Postproduction che teorizzava un’arte che “non è più il punto terminale del ‘processo creativo’ […] ma un sito di navigazione, un portale, un generatore di attività”7; questa riflessione si arricchirà di nuove sfumature negli anni successivi grazie al contributo di teorici e artisti. Si pensi al “versioning” (2009) di Oliver Laric, l’idea che le immagini esistano in un flusso ininterrotto fatto di variazioni, scomparse e riattivazioni8; alle “immagini povere” (2009) e al “circulationism” (2013) teorizzati da Hito Steyerl9; al concetto di “format” introdotto da David Joselit in After Art (2013) per superare l’idea di medium che vincola l’opera a un sostrato materico, e riflettere su quest’ultima come “una rete di link e connessioni”, frutto di “azioni di re-inquadramento, focalizzazione, reiterazione e documentazione”10. Come ha ben riassunto Ceci Moss in un saggio recente, oggi il rapporto tra arte e reti non si può più descrivere attraverso le dinamiche ipersemplificate della digitalizzazione (da oggetto a informazione) e della materializzazione (da informazione a oggetto); l’arte esiste come nodo di rete in un “informational milieu” per cui “l’opera non è inerte e chiusa ma evolve all’interno della sua situazione di rete, scendendo continuamente a patti con i diversi supporti che le consentono di muoversi. Un’opera d’arte espansa riproduce, viaggia e accelera attraverso diversi spazi e forme, ricostituendosi di volta in volta.11”
Come si è evoluta l’operatività di Maurizio Cattelan nel corso di questo decennio cruciale? Nel 2011 Cattelan dà un plateale addio all’arte, concretizzato in “All” la sua celebrazione retrospettiva al Guggenheim di New York (2011–2012): un’opera d’arte totale, una mostra-caleidoscopio catturabile, da diversi punti di vista, in un unico sguardo, che ha portato migliaia di persone a replicarla, decostruirla e ricostruirla attraverso la documentazione. A posteriori, possiamo dire che non era né un addio né una bugia, ma una semplice migrazione verso altri formati, che mette in discussione l’oggetto come manifestazione primaria dell’immagine, ma non rinnega l’ossessione primaria di Cattelan: “parlare di sculture mi suona strano. Non è una questione di mezzi ma di immagini” –– dichiarava già nel 200512.
Nel 2007 aveva mandato in pensione Permanent Food, il progetto editoriale fondato nel 1996 con Dominique Gonzalez-Foerster e Paola Manfrin: un frullatore di immagini appropriate da altre riviste e ri-editate – re-inquadrate, direbbe Joselit – in una nuova narrativa. Il 2007 è, tra l’altro, l’anno del lancio di Tumblr, la piattaforma di microblogging che digitalizzava e rendeva accessibili a chiunque le strategie di raccolta e di editing della rivista. Con acuta consapevolezza, dichiarerà a posteriori: “a metà degli anni 2000 questo principio è dilagato con le immagini online: le immagini vengono ripostate centinaia di volte, fino a non riuscire più a risalire all’origine; a quel punto riproporre lo stesso processo su carta aveva perso di senso.”13 Suona familiare?
Toilet Paper, il nuovo progetto editoriale lanciato nel 2010 con il fotografo Pierpaolo Ferrari, riparte da qui: dall’addio al museo – “da qualche tempo a questa parte non riesco a vedere il mio lavoro in dialogo con il pubblico dentro alle gallerie o ad altri spazi espositivi. Il pubblico che mi interessa è quello che cammina nelle piazze o, se nel museo, quello che va al cesso”14 – e dalla volontà di contribuire al flusso delle immagini con modalità differenti, che superano la pura appropriazione di Permanent Food e rinunciano al fardello autoriale proprio dell’opera musealizzata, per accogliere la leggerezza immateriale della fotografia, i codici espressivi dell’immagine-meme, e la patina estetica della fotografia di moda. Ogni immagine di Toilet Paper, nelle sue varie declinazioni (dalla rivista cartacea, ai video trailer, al merchandise) è un intervento in una cultura della partecipazione e della circolazione, che condensa una rete di riferimenti in un’immagine “originale”, li accelera e li ridistribuisce nell’attuale “informational milieu”.
Più che di rottura con la sua opera precedente, si tratta di un rischioso rilancio della propria presenza nella commedia delle immagini, tentato con successo da uno che ha sempre avuto un’acuta consapevolezza dell’impatto delle reti di comunicazione in questa storia.15 E da un artista, aggiungerei, che ha sempre attribuito un senso forte al ruolo dello spettatore e allo scambio relazionale che si attiva attorno alle immagini: “questo è il punto in cui arriva il significato, quando le persone cominciano a proiettare nuove idee sull’immagine […] il contenuto e il significato sono costruzioni; ci si arriva attraverso un processo, non sono mai un dato di fatto”16; “a me delle provocazioni non interessa poi granché. Delle reazioni della gente e del pubblico sì, però: un’opera d’arte non è completa senza i commenti, le parole, le idee di chi ci capita davanti.”17
Anche l’addio al museo e alla galleria è temporaneo: non per incoerenza ma perché, sempre più, nella contemporaneità museo e galleria sono solo un altro nodo del network, un trampolino come un altro per l’accelerazione di un’immagine.
Dopo questa premessa, vorrei concludere con una lettura di Comedian come frutto, vivace e intenso, di un’arte relazionale che ha imparato da 4chan. Un’opera format di un’arte espansa che esiste come oggetto, come immagine, come informazione, come sorgente di innumerevoli riconfigurazioni.
Comedian nasce come un gesto: attaccare una banana al muro come supporto al pensiero – un secolo fa, Marcel Duchamp ha spiegato nello stesso modo la ragione che l’ha spinto a fissare una ruota di bicicletta su uno sgabello. Il gesto produce un’immagine abbastanza vuota da non funzionare come “immagine univoca” – “le immagini a senso unico sono spazzatura per gli occhi e per il cervello: inquinamento visivo allo stato puro”18, “abbastanza forte da poter stare in piedi da sola.19” L’immagine ottiene un titolo, un prezzo, un certificato di autenticità, e viene piazzata su una piattaforma di distribuzione. Il titolo, raro nel lavoro di Cattelan, offre una chiave di lettura (il riferimento alla slapstick comedy) ma serve anche per intorbidire le acque (è una burla!). Il prezzo (dichiarato), il certificato, la piattaforma (una fiera d’arte contemporanea) sono necessari ad attivare tanto il pubblico convenzionale (i visitatori a caccia di selfie, la critica, i news media) quanto il pubblico accidentale (“WTF I don’t even?”, “You’re doing it wrong”, “My kid could do that!”, tassonomizza Troemel)20. D’altra parte, l’apparente semplicità del gesto invita alla ripetizione e alla variazione quello stesso pubblico – gli anarchici dell’immagine – che si scandalizza per il valore di mercato e la dichiarazione di autenticità attribuita al lavoro.
Tutto ciò che è conseguito da questo semplice gesto ne è la conseguenza diretta e inevitabile, come la reazione a catena innescata da una miccia nel capolavoro di Fischli & Weiss – “a volte mi accontento di spostare un’immagine da un posto all’altro, semplicemente. È un piccolo cortocircuito che si crea in queste situazioni, dal quale possono scaturire mille scintille, anche pericolosissime”21. Le code davanti alla parete del booth D24 di Art Basel Miami Beach. La valanga di selfie davanti al lavoro che ha inondato i social network. La cover del New York Post. I remake e le variazioni sul tema, incitati dalla Galerie Perrotin (e quindi, dall’artista stesso) con il lancio, il 7 dicembre, dell’account Instagram @cattelanbanana, “powered by @galerieperrotin” che invita chiunque a “farsi la propria banana”22. Il rapido affollarsi dei collezionisti, che in poche ore hanno sottratto il lavoro al mercato. Le reazioni ora fredde, ora scandalizzate, ora pateticamente didascaliche, raramente entusiaste anche quando la giustificano della critica del settore, messa in difficoltà dallo spettacolo osceno di un’opera che, per strade oscure, è diventata in quattro giorni patrimonio di tutti, riqualificando un simbolo usurato e un oggetto quotidiano con una velocità e una intensità che hanno pochi precedenti. Lo psicodramma di Francesco Bonami, compagno di strada e complice da una vita, biografo non autorizzato, potente curatore e divulgatore nazionalpopolare, e recentemente raffinato e caustico social media performer23, che prima su Artnews e poi sul Corriere della Sera attacca il lavoro, dando degli idioti ai suoi collezionisti, ma nel farlo ne offre anche, dalla sua posizione polemica, una lettura molto vicina alla nostra – “Il lavoro non esiste. Il parlare che se ne fa è il lavoro.24” La performance non autorizzata di un artista in cerca di visibilità che, con la presunzione di instaurare un dialogo alla pari con Cattelan, ha fatto quello che chiunque per un istante ha pensato di fare: ha staccato la banana dal muro, e se l’è mangiata. Le speculazioni di chi ha pensato che questo e altri fatti accaduti attorno a Comedian fossero concordati, costruiti per aumentarne il successo di scandalo. Il rilancio di Comedian in forma di t-shirt, prodotta da Perrotin per supportare un’organizzazione di lotta alla fame. Tutto questo era implicito in quel gesto originario: doveva solo essere esplicitato, con l’aiuto di tutti.
Un ultimo nodo resta da sciogliere: che cosa concilia la presunta banalità dell’immagine con la straordinaria energia che ha manifestato nella sua propagazione? Ha ragione Bonami quando dice che l’opera non esiste e che la fama di giullare e il genio inaridito di Cattelan – “un Leonardo che fa la punta alla matita” – bastino a giustificare questa fiammata improvvisa? È a questo punto che diventa interessante entrare nel merito del chiacchiericcio, visivo e verbale, che l’opera ha suscitato. Ripercorrendolo, restiamo stupiti dall’infinità di riferimenti intertestuali e di collegamenti ipertestuali che l’opera sembra in grado di suscitare: all’opera di Cattelan, alla storia dell’arte contemporanea, alla cultura popolare, su vari livelli. Il duct tape rimanda a quando Cattelan mise al muro il gallerista Massimo De Carlo (Untitled, 1999) 25; la scelta della location rievoca un’altra collaborazione celebre con Emmanuel Perrotin (Errotin, le vrai lapin, 1995), violenta come A Perfect Day e a connotazione fallica come Comedian. Entrambe queste affinità legittimano l’idea che Comedian sia un commento critico al mondo e al mercato dell’arte, mentre il tema della sospensione e quello della miniaturizzazione intessono una fitta rete di corrispondenze con molti altri lavori dell’artista. È incredibile quanto Cattelan si possa trovare, a cose fatte, in un’immagine così semplice.
Spesso a supporto della presunta banalità del gesto, molti commenti hanno rievocato una rete altrettanto fitta di riferimenti alla storia dell’arte; Duchamp, ça va sans dire; Warhol e la cover dell’album dei Velvet Underground & Nico; Giovanni Anselmo e l’insalata; lo stencil della banana usato da Thomas Baumgärtel per marchiare le gallerie di Cologne, divenuto negli anni Ottanta un identificatore degli spazi d’arte; e altri riferimenti più peregrini a artisti che hanno usato frutta o verdura fresca nei loro lavori. Lo stesso Cattelan, di solito parco di indizi, in una intervista rilasciata a Vice sette mesi prima di Comedian, ne dissemina diversi: Warhol, il Giorgio De Chirico dell’Incertitude du poète, e forse il più sorprendente, Natalia LL e l’attivismo anticensura a Varsavia. Commentando le immagini pubblicate su Vice (cavalieri in armatura intenti a mangiare una banana sbucciata) spiega: “Volevamo omaggiare Natalia LL e la sua performance Consumer Art (recentemente censurata dal governo polacco), insieme a tutti gli attivisti che hanno invaso lo spazio antistante al Museo Nazionale di Varsavia, armati solo di banane. Un’ulteriore conferma dell’importanza simbolica di questo frutto.26”
Il 2019 iniziò con il successo virale di un’immagine per certi versi simile a Comedian: la fotografia di stock di un uovo su sfondo bianco, promosso da una intraprendente pubblicitario, Chris Godfrey, per sollecitare un gioco sociale: strappare a Kylie Jenner il record del post con più like su Instagram. Il @world_record_egg superò il record di Kylie (18 milioni di like) in dieci giorni, raggiungendo i 53 milioni di like in tre mesi. Comedian non è (solo) una rete di metareferenze intertestuali, né (solo) un’operazione di marketing, né (solo) un gioco sociale, ma cerca il contatto con tutti questi formati e tutti li incorpora. Seguendo l’intuizione “post internet” che non c’è niente di più simile a una foto di stock di un’opera readymade fotografata nel white cube sotto la luce zenitale di una fiera, Cattelan dà il via alla commedia delle immagini ad Art Basel Miami Beach. Ripresa da vicino, croppata nel classico formato quadrato, Comedian diventa la perfetta immagine meme, destinata a viaggiare lungo strade che vanno al di là dell’intenzione del suo autore, ma che lui stesso ha avuto la capacità di intuire.
Esistono, tuttavia, altre foto di Comedian, scattate da Zeno Zotti (l’autore di tante immagini “ufficiali” di Cattelan) che appaiono, in conclusione di questa analisi, ancora sorprendenti. La luce è più calda e giallastra di quella che ci si aspetterebbe dopo anni di Contemporary Art Daily e di documentazione finalizzata al successo sugli schermi di telefoni, tablet e computer. Troppo piccola per quel muro, Comedian ci guarda – un po’ intimidita, un po’ sperduta – dall’alto di uno scaffale di libri, fra cui si intuisce qualche titolo. È come se l’”autore” avesse voluto tutelare il suo senso intimo, lasciare traccia di cosa è per lui, consapevole del fatto che, una volta liberata l’immagine, il suo significato non gli appartiene più. Così ricontestualizzata, Comedian ricorda un po’ Mini-me (1999), un po’ la monografia Phaidon grande un quarto del normale (2003). Come loro, è un tentativo, insieme timido e spavaldo, di intrufolarsi nel canone.