“Ego – Takashi Murakami”, a cura di Massimiliano Gioni — Direttore artistico della prossima Biennale di Venezia —, è una delle più ampie mostre dell’artista giapponese e la sua prima esposizione in Medio Oriente. La retrospettiva ospita settanta importanti lavori realizzati a partire dal 1997, oltre a nuove opere influenzate dal terremoto e dallo Tsunami verificatosi in Gippone lo scorso anno.
Che significato vuoi dare al titolo della mostra?
Takashi Murakami: Quando Massimiliano Gioni e io abbiamo cominciato a lavorare al progetto, abbiamo parlato immediatamente di titoli. Massimiliano ne ha suggeriti circa venti diversi, ma nessuno di essi era in grado di catturare l’attenzione. Abbiamo continuato a parlarne e sono passati mesi. La mostra doveva essere inizialmente una retrospettiva con alcuni lavori nuovi: era questa l’unica idea che avevamo. Ma poi, due mesi più tardi, Massimiliano mi ha mandato una mail dicendomi: “Cosa ne pensi di ‘Murakami – Ego’?” e io ho pensato “sì, funziona”. Dopo aver deciso il titolo, il concept della mostra è davvero cambiato. La maggior parte degli autoritratti in mostra e la scultura gonfiabile di fronte alla facciata del museo sono state tutte influenzate e sono venute fuori in seguito alla scelta del titolo. In questo modo la mostra si collega a un tempo e a un luogo specifici. Sentivo che questo avrebbe attirato l’attenzione del pubblico del Qatar.
Massimiliano Gioni ha parlato di una sorta di passaggio dal “superflat” al “soprannaturale”. Puoi parlarci del cambiamento e dell’evoluzione nel tuo lavoro, così evidenti in questa mostra?
TM: Quando ho coniato il termine, “superflat” non indicava una connotazione positiva della cultura giapponese, ma piuttosto critica. Dopo la guerra, le gerarchie sociali si sono maggiormente livellate e tutto è diventato piatto. Certo, abbiamo ottenuto la democrazia, ma c’era una piattezza così rigida che, se qualcuno avesse cercato di emergere, sarebbe stato riportato alla posizione di partenza; allo stesso modo, se ti trovavi in difficoltà, venivi rialzato. Era una monotonia strana, innaturale. Da una parte c’era la piattezza sociale, ma poi c’era anche quella di manga e anime, la piattezza della storia, il modo in cui vengono create le immagini e la piattezza della pittura tradizionale. Massimiliano ha usato il termine “superflat” per parlare del “soprannaturale” come gioco di parole, ma il “naturale” e il suo lato umano sono davvero stati sempre parte di questa piattezza. È importante rendersi conto di tutto ciò. Per me, la vera origine del “superflat” è stata la strage a opera di Aum Shinrikyo negli anni Novanta. Eventi come questo, avvenuto prima del terremoto dell’anno scorso, hanno represso la cultura del “superflat”. Ora tutte queste cose stanno venendo fuori e stanno cambiando. Credo che sia questa la ragione per cui Massimiliano dice che il mio lavoro sta diventando più umano, dato che l’unicità della cultura giapponese si sta modificando. È diventata più universale. In un certo senso ora è più facile da capire.
Cosa pensi del progetto culturale dei musei di Doha e del Qatar?
TM: Quando sono venuto a contatto per la prima volta con Sheikha Al Mayassa e suo marito Sheikh Jassim, lui mi ha salutato dicendo “Ciao fratello” — e non lo intendeva in senso americano, perché siamo entrambi asiatici. Poi mi ha chiesto se sapevo che il Qatar ha investito un sacco di soldi in Giappone e che c’è un rapporto molto forte tra i nostri paesi. Ha aggiunto che era molto orgoglioso di avere una mia mostra qui, dato che sono stato uno dei primi artisti asiatici ad aver avuto successo nel panorama artistico internazionale. Io credo che l’artista emerga in una cultura quando riflette sul vocabolario culturale locale e su come può essere trasferito in un linguaggio internazionale. Quando ero bambino mi hanno portato a vedere una mostra di Goya e guardando le immagini del demone che mangiava il bambino o de La Maya Desnuda, prima che io riflettessi sulla diversità delle culture, rimasi scioccato e imbarazzato. Mio padre mi regalò un poster da attaccare alla parete. Questa esperienza mi colpì molto. Spero che i bambini possano venire qui e sentire qualcosa di forte, e che in seguito possano riflettere sulla loro cultura e sul modo in cui la cultura va oltre la lingua.