In occasione di “Cambio” mostra-progetto-manifesto presso Serpentine Galleries, Londra
CGPS: Cominciamo con una domanda che pone Hans Ulrich Obrist nella sua prefazione al catalogo di Cambio, in uscita in occasione del vostro progetto alla Serpentine. Come il design può essere sostenibile? Come possiamo utilizzarlo per trasformare l’attitudine generale che ci ha portato a questa situazione semi-irreversibile di cambiamento climatico – che certamente delinea conseguenze devastanti per il futuro?
Formafantasma: Partiamo dal presupposto che il sistema economico, finanziario e produttivo attuale non è sostenibile. Non siamo nemmeno sicuri che l’essere umano lo sia. Detto questo, ci sono molte cose su cui possiamo lavorare. La prima che ci viene in mente è provare a rendere il design meno antropocentrico. Come potete immaginare è un paradosso considerando che la definizione stessa di design implica il desiderio e l’istinto umano di scolpire l’ambiente che lo circonda per assecondare i propri desideri e necessità.
Dall’altra parte un pensiero ecologico si può sviluppare esclusivamente se comprendiamo quanto l’interconnessione tra le varie specie sul pianeta sia fondamentale e indissolubile. Pertanto non possiamo pensare che il design si occupi esclusivamente del benessere e dei desideri umani. Se la nostra sopravvivenza è pari a quella di tutte le altre specie con cui condividiamo la Terra, il design non può più avere come unico referente l’uomo. De-antropizzare l’attività umana è ovviamente un’utopia, ma il tentativo di realizzarla è quello che ci può salvare perché ci porterà a osservare l’esistente non come una fonte da penetrare e estrarre ma da amare e con cui cooperare. Il design può dunque intervenire su diverse scale. Ci sono soluzioni a brevissimo termine. Quelle più ovvie, come ad esempio fare scelte materiali e produttive più sostenibili, pensare al deperimento dei prodotti, al loro possibile riciclaggio. Poi ci sono soluzioni a medio termine, quelle sistemiche. Qui il design deve lavorare in modo più olistico, non occuparsi esclusivamente della progettazione del prodotto ma di osservare e riformare la catena produttiva nella sua totalità, dall’estrazione di materia prima alla fase distributiva, di riparazione e riciclaggio. Infine ci sono soluzioni a lungo termine. Quelle filosofiche e speculative che ci aiutano a immaginare modi di vivere, di produrre, di viaggiare, di amare, di provare empatia, che vanno oltre una visione prettamente capitalista.
CGPS: “Mi sono dato come legge di procedere sempre dal noto all’ignoto, e di non fare alcuna deduzione che non sgorghi direttamente dagli esperimenti e dall’osservazione”.
Il vostro lavoro procede per sperimentazioni, un po’ come gli scienziati seicenteschi alla ricerca di nuove verità nascoste quanto evidenti in natura. Un modo di apprendere producendo risultati che sviluppano un’idea iniziale. Raccontateci del vostro metodo sperimentale e come si è sviluppato nel corso degli ultimi dieci anni di ricerche.
FF: Quando abbiamo iniziato il nostro approccio era più intuitivo e meno programmatico. I primi lavori erano i più introspettivi, abbiamo cercato di individuare cosa ci interessa di più all’interno della disciplina del design, capirne i cliché e dove poter espandere la nostra visione. I temi che ci interessano erano già tutti lì, come anche l’osservazione delle dinamiche del fare progettuale in modo più olistico. Recentemente con i nostri lavori meno commerciali come Ore Streams (2017–2019) e Cambio (2020) stiamo cercando di essere più radicali.
CGPS: Parliamo di “Cambio”: il progetto è anche il titolo della mostra alla Serpentine, ed è in italiano. Perché avete deciso di mantenerlo tale? È legato alla vostra lingua madre o ci sono altri motivi dietro questa scelta? Cambio delinea un’azione chiara. Nella istallazione presentata alla Serpentine si concepisce il cambio?
FF: “Cambio” ha duplici significati. In italiano il cambio (dal latino Cambium) è lo strato di poche cellule che negli alberi è situato tra la corteccia e il corpo interno. Questo piccolissimo strato è fondamentale perché, oltre ad altri scopi, è responsabile del dialogo fra l’interno e l’esterno dell’albero. Quando le piante sono emerse dall’acqua, dopo aver creato l’atmosfera milioni di anni fa, hanno subito diversi stress dovuti ai cambiamenti climatici e hanno avuto bisogno di una protezione per sopravvivere. Il cambio ha facilitato questo processo trasformativo e aiutato le piante in pericolo a diventare alberi, producendo una vera e propria armatura biologica: il legno. Abbiamo preferito utilizzare il termine italiano e non latino poiché non volevamo suggerire la connessione immediata all’ambito scientifico ma orientarci su un livello più umanistico della parola, che suggerisce appunto un momento di transizione e di cambiamento, che è quello cui auspichiamo.
CGPS: Un progetto come Cambio prevede sicuramente un team di ricercatori e progettisti. È stato uno dei primi progetti a essere impostato con queste dinamiche?
FF: Quando ci siamo confrontati con Hans Ulrich Obrist e Rebecca Lewin sulla possibilità di fare una mostra alla Serpentine, la cosa che ci è sembrata più interessante è che la richiesta non era quella di pensare a una retrospettiva ma di mostrare – come fatto da Kostantin Grcic e Martino Gamper – un modo di vedere il design, una forma di manifesto. Il design del prodotto in tal senso non è fondamentale. Partendo da tali presupposti abbiamo inteso la mostra non tanto come la fase conclusiva di un percorso, quanto come il suo inizio. Ci interessava pertanto focalizzarci sulla fase di ricerca, in questo caso su un iper-oggetto come l’industria del legno e della sua estrazione. La struttura è in realtà simile a quella che abbiamo utilizzato con Ore Streams (che era una commissione della National Gallery di Victoria a Melbourne). La differenza sostanziale è che in quel caso avevamo un limite o meglio una commissione più specifica – ci è stato chiesto di disegnare dei mobili collegati all’analisi sul riciclo di scarti elettronici. Questo perché il museo ha istituito una collezione legata al design del mobile e voleva assicurarsi che il nostro lavoro rispondesse a tale esigenza.
Un’istituzione come la Serpentine, che opera in modo più simile a quello di una Kunsthalle, nel senso che non possiede una collezione permanente, ci ha permesso di andare oltre il prodotto.
La mostra cerca di espandere la cerchia di conversazioni che abitualmente il design intrattiene così abbiamo incluso nel progetto le ricerche di diversi professionisti che si occupano di discipline come la dendroclimatologia, lo studio dell’anatomia del legno, la conservazione, la filosofia, l’attivismo e le politiche di governance. Per cui, di fatto non ci sono dei progettisti oltre a noi, ma tante altre figure che hanno permesso di costruire una visione più olistica del design e delle conoscenze necessarie per sviluppare strategie ecologicamente responsabili.
CGPS: L’esposizione è un viaggio attraverso un processo di consapevolezza su quanto è urgente oggi cambiare il modus operandi nella nostra società. Quanto incide la parte critica e quanto il trovare una soluzione all’interno del vostro percorso?
FF: La componente critica è sicuramente presente e fondamentale. La mostra però, in modo più o meno esplicito, offre dei punti di riflessione e delle domande che suggeriscono possibili strade più trasformative. Per esempio con Cambio ci occupiamo del legame complesso tra accelerazione della produzione, i tempi naturali di crescita degli alberi e il ciclo di assorbimento di CO2. Tali considerazioni possono offrire spunti interessanti seppur radicali, proposte o considerazioni sul ciclo di vita dei prodotti nonché la necessità di maggior trasparenza del processo di approvvigionamento e produzione.
CGPS: Avete riflettuto a lungo su come procedere in termini di produzione della mostra: dal libro, alla realizzazione di ogni stanza, per impattare il meno possibile sull’ambiente e per generare consapevolezza sulle modalità dispendiose nel progettare mostre in passato. Pensate di essere riusciti nel vostro intento? Come siete riusciti a evitare lo spreco non necessario?
FF: Si, la mostra lavora anche su un meta-livello. In primis ci siamo posti il limite di lasciare i muri della galleria bianchi e di non costruire nessuna partizione aggiuntiva che non fosse strettamente necessaria – per esempio abbiamo dovuto costruire un muro all’entrata per la proiezione di un video per evitare che entrasse troppa luce. Anche tutti i supporti che abbiamo disegnato per mostrare i vari contenuti non sono dei piedistalli ma dei veri e propri oggetti come tavoli, mensole, scaffalature. Non volevamo che il design ne suggerisse un’idea di temporalità, come fossero futili elementi di rimanenza di una mostra. I pezzi sono chiaramente pensati per avere una vita oltre questa. Volevamo inoltre che il legno utilizzato fosse in qualche modo significativo, quindi abbiamo scelto di lavorare con legno di abete rosso della Val di Fiemme. Proprio lì, circa un anno fa a causa del cambiamento climatico una tempesta ha distrutto 13.000.000. di alberi. Il rischio è che il resto della foresta venga contaminata dai batteri degli alberi che inevitabilmente marciranno se non raccolti. Il legno di abete non è un materiale adatto alla costruzione di mobili perché molto tenero e facile da incidere. Dunque lo abbiamo trattato con una finitura simile a quella degli strumenti musicali che rendono la superficie più resistente. Seppur la scala è irrisoria, per noi scelte come questa hanno un preciso valore nel nostro processo, che si allontana da scelte esclusivamente formali. Lo stesso vale per il catalogo che ovviamente è realizzato con una carta certificata che non contiene tracce di specie arboree protette.
CGPS: Le vostre azioni sembrano procedere con una volontà sistematica. Utilizzate fonti e ricerche cross-disciplinari, autorevoli e inaspettate, come in un catalogo sempre in-progress, che rispecchiano la varietà di idee e competenze, per creare quello che definite un “Ombrello concettuale”. Cambio è l’inizio di un’ulteriore fase di investigazione. Questo cambio continuo dove vi conduce adesso?
FF: Alcuni dei contenuti di Cambio continueranno a livello didattico all’interno del Master che gestiremo da settembre 2020 alla Design Academy di Eindhoven. Se Cambio al momento guarda alle macro dinamiche che governano l’industria del legno, il passo successivo sarà quello di focalizzarci su casi studio più specifici. Passeremo dalla scala macro a quella micro. Ci piacerebbe, per esempio, non solo trasformare parte dei contenuti sviluppati in un compendium per il Master ma anche lavorare con una azienda del mobile o del prodotto semifinito.
CGPS: Amate lavorare con, e su, aspetti apparentemente marginali – per temi e latitudini. Volate in diverse parti del mondo per incontrare comunità e pratiche sedimentate nel tempo, spesso sconosciute e dimenticate. Raccontateci gli incontri inaspettati di questo cambio nella vostra pratica di interrogazione.
FF: A dire il vero abbiamo volato il meno possibile. Simon per esempio che lavora con noi ed è colombiano ha gestito i contatti con la Fondazione Gaia Amazonas che si occupa di aiutare le popolazioni indigene colombiane a tracciare i loro territori così da fornire dati da tradurre in azioni legali per assicurarsi che parte dell’Amazzonia, in cui vivono, non venga disboscata. Simon è volato solo una volta in Colombia, tutte le altre conversazioni sono state effettuate via Skype o via whatsapp – sia per quanto riguarda questa parte della mostra che per il resto.
Per la mostra abbiamo lavorato con il Thunen Institute in Germania, con i Kew Gardens, il Victoria & Albert Museum, la European Investigative Agency di Londra, uno studioso dell’evoluzione del legno e persone coinvolte con la costruzione di governance legata a elementi naturali come le foreste. La lista è lunghissima. Più che inaspettati, tutti questi incontri sono stati fortemente voluti e cercati. La parte più intensa della mostra è stata questa: intessere relazioni.
CGPS: Quali sono i vostri riferimenti italiani?
FF: Il filosofo Emanuele Coccia. Con lui abbiamo lavorato su un video a conclusione della mostra che ribalta tutto quello che si è visto prima. Abbiamo utilizzato una tecnologia che si chiama Lidar, che spesso viene applicata per la scansione a laser delle foreste per decidere come operare un taglio selettivo. Abbiamo ribaltato questo utilizzo per costruire un’animazione ADI di circa 15 minuti su cui Coccia ha scritto un monologo: un albero parla agli umani e ricorda cosa ci accomuna e cosa ci distingue da essi. Un modo per ricordare l’intelligenza dei non-umani, in questo caso degli alberi, e per mettere in discussione la nostra supremazia sul pianeta: siamo noi che abbiamo dato forma alle foreste o gli alberi con il legno al nostro mondo?
CGPS: A un certo punto sembrava non esistesse più la geografia. In un mondo iperconnesso e conosciuto. Oggi sembrerebbe che la parte “Geo” sia sempre più in evidenza. Cosa intendete per Geo-Design?
FF: Il termine Geo-Design si riferisce alla scala e alle implicazioni planetarie che producono il design oggi. Ogni volta che produciamo qualcosa assembliamo pezzi di pianeta in nuove forme. In mostra, ad esempio, abbiamo incluso una serie di libri raccolti globalmente da amici internazionali, che presentano tutti lo stesso testo: L’origine delle specie di Darwin. Ne abbiamo analizzato le carte per capire le fibre utilizzate e ricostruire una mappatura della produzione di paper pulp. Un albero come l’eucalipto, originario dell’Australia, si trova oggi in piantagioni ovunque perché è tra i più veloci a crescere, pertanto idoneo a una produzione sempre più veloce. Il libro stampato in Brasile, che è un grande esportatore di materia prima per la produzione di carta, ha esclusivamente fibre di abete Norvegese e Eucalipto. Questo significa che stiamo uniformando il pianeta e sostituendo specie autoctone con altre: stiamo ricostruendo una nuova Pangea.
CGPS: Come scampate al pericolo dell’autoreferenzialità? Come sfuggite al limite della disciplina?
FF: Cambio è l’opposto dell’auterefenzialità. Si apre agli altri.
CGPS: Le materie prime erano diventate terze, quarte per importanza quando il mondo sembrava tutto digitale e connesso, fin-tech e byte. Oggi le materie prime sono alla base dei processi. Voi partite spesso dalla materia prima…
FF: Si, partiamo dalla materia perché ci interessa capire l’infrastruttura su cui si basa il design, capire come la materia è estratta, lavorata, distribuita. Solo così possiamo essere consapevoli dei processi che definiscono l’economica contemporanea.
CGPS: Anche i grandi fondi finanziari oggi parlano di ESG: Enviromental, Social e Governance, per i loro investimenti. Sono trend o veri cambiamenti climatici?
FF: Il design ha un ruolo politico ed è inevitabile perché è spesso utilizzato come uno strumento di espansione economica. Dare forma al mondo significa anche e soprattutto deciderne le politiche.