È un immaginario a portata di mano, aperto al pubblico, eppure inviolabile e intangibile. Con una vasta parete trasparente che lo affaccia sul mondo e, al tempo stesso, dal mondo lo protegge, lo separa e lo strania. Rendendo quantomai attraenti e ineludibili i contenuti raccolti insieme e allestiti al suo interno. Merci che interagiscono con fondali, quinte e oggetti di scena per dare vita a ricercate trame spaziali e narrative, tranche de vie ricostruite nei dettagli, composizioni altrimenti astratte, surreali, metafisiche.
Nata per esaltare il fascino e la desiderabilità dei prodotti, l’arte del display ha improntato il tempo nell’arco di oltre due secoli. Trasformando la vetrina in un potente e irrinunciabile richiamo commerciale. Una mise en scene merceologica che ha contaminato numerosi altri spazi e format, la pagina cartacea e quella digitale, le fotografie, le illustrazioni e il concept grafico di copertine, redazionali e pubblicità, i packaging e la comunicazione di moda e cosmesi, ma anche quelle di design, architettura, arredamento o altri beni di lusso, non senza affascinare gli artisti e informare la concezione di svariate opere moderne e contemporanee.
Palcoscenico di brand, costumi e consumi – non di rado firmato da modi connotati e codificati di disporre manichini e modelli, di allestire tessuti, accessori, gioielli e bijoux, di contestualizzare arredi, oggetti straordinari e nuovi prodotti – ha affermato e distinto professionisti sempre più accreditati, geniali e visionari, assunti in esclusiva da importanti department store e boutique monomarca, per valorizzarne e diffonderne l’identità e instaurare un dialogo con il pubblico della strada, inevitabilmente sedotto e attratto dall’originalità e dalla magia di strutture espositive ad hoc. Sostegni antropomorfi, zoomorfi, fitomorfi, ma anche espositori astratti, schematici, geometrici, concepiti a esatta misura di abiti, cappelli, borsette, scarpe o guanti, e contestualizzati secondo criteri sempre diversi nei quadri tridimensionali di shop o store window viepiù complessi, grandiosi, preziosi. E di crescente successo nel contesto internazionale di un mercato sempre più attento all’impatto visivo e all’attrattiva di beni superflui, costosi e alla moda.
Peraltro, dal mercante Francis Place, tra i primi a optare per l’esposizione sotto vetro dei suoi prodotti sartoriali nella londinese Charing Cross di fine Settecento, alle teorie sul display del tecnico americano L. Frank Baum, che fonda la rivista The Show Window, oltre che la National Association of Window Trimmer già negli anni tra 1897 e 1898. E dalle analisi pionieristiche di uno psicologo del consumo come Walter Dill Scott, autore di Psycology of Advertising nel 1908 e teorico di riferimento nei corsi di design commerciale già introdotti in quel periodo nei college americani, ai numerosi manuali e magazine che vengono contemporaneamente dedicati alla creazione della “vetrina di vendita”, quella del display appare presto una strategia funzionale e perfettamente consona all’evoluzione del mercato occidentale del XX secolo. Una storia che, non a caso, si arricchisce nel tempo di contributi diversi. Quelli, in Germania, della Deutscher Werkbund e in seguito della Scuola di Reimann, che riformano il design nei primi decenni del Novecento e evolvono lo stile dei display, introducendo un gusto modernista per gli oggetti ridotti al minimo e disposti secondo schemi geometrici. Un approccio estetico e teorico che viene esportato negli Stati Uniti da artisti, architetti e designer come l’austriaco Frederick John Kiesler. Membro di De Stijl, abbandona l’Europa per ragioni politiche e raggiunge l’America nel 1926, lavorando alla realizzazione di vetrine moderniste per Saks a New York e alla pubblicazione, nel 1929, di un libro di successo come Contemporary art applied to the store and its display, dedicato ai nuovi punti vendita e ai loro display.
D’altra parte, l’attività del fotografo Eugène Atget, che documenta le vetrine parigine a partire dal 1890, non manca d’influenzare generazioni a venire di artisti, in particolare i cubisti come Fernand Léger e i surrealisti come Max Ernst o Salvator Dalì, che la cultura di massa, vetrina inclusa, rendono un loro fondamentale ambito d’indagine. Legato alla città di New York per oltre quarant’anni, Dalì è il primo artista a realizzare vetrine per Bonwit Teller, uno dei più prestigiosi punti vendita di abbigliamento femminile sulla 5th Avenue, nel 1929. Ne concepisce due, dedicate al “Giorno” e alla “Notte”, che vengono tuttavia riallestite in meno di ventiquattro ore, visto l’enorme richiamo del personaggio e le lunghe file di curiosi create dalle sue surrealiste mise-en-scène sotto vetro.
Ma pensiamo anche al cinema hollywoodiano che, più ancora del modernismo e dei contributi d’artista, imperversa in America negli anni Trenta ispirando la creazione di display che attingono riferimenti visivi e contenuti da film e commercial, e che appaiono luminosi e sovradimensionati come proiezioni in pellicola. È vero comunque che già nella prima parte della sua lunga storia, la finestra merceologica di negozi e department store come Selfridges, Le Bon Marché, Macy’s o La Rinascente appare frutto di contributi eclettici, forme diverse e affascinanti di ricerca e rappresentazione, d’incontro e interazione fra arte e altro, destinate a sopravvivere, a diffondersi e ad affinarsi ulteriormente nel tempo.
Al punto da contaminare anche il concept grafico di copertine e pubblicità, che, basti solo ricordare la rivista Stile1, un mensile d’arte affidato a Gio Ponti da un editore, Garzanti, che, fino ad allora, poco o nulla ha avuto a che fare con l’arte. Pubblicato dal 1941 al 1947, Stile vivrà con l’introito di pubblicità e con il sostegno di un pubblico a sua volta e perlopiù estraneo all’arte, attingendo appunto dal linguaggio della vetrina la possibilità di far confluire e convivere nelle sue straordinarie copertine illustrate i diversi linguaggi e contenuti che raccoglie nelle sue pagine. Già fondatore e direttore di successo di una rivista come Domus, nata alla fine degli anni Venti, Ponti pubblica su Stile sia scritti di de Chirico che poesie diDe Pisis, dipinti di Martini o di Campigli, oltre che esempi e pensieri diversi di architettura, raccogliendo su inserti di carta colorata articoli di Bontempelli, Sinisgalli o Irene Brin. E concependo così un suo statement sulla cultura moderna, sui nuovi modi di vedere, di vivere e di abitare la casa. Una casa per tutti che rispecchia i temi e i colori dell’opera, e l’arte applica alla concezione di progetti e soluzioni decorative. Un sogno, anche, che precorre il tempo, nel quale Ponti pubblica quello che legge e si firma con decine di pseudonimi diversi, trasformando le sue copertine-display in un suo manifesto e un’ispirazione per le generazioni a venire.
Negli anni a cavallo tra Cinquanta e Sessanta, il display torna peraltro ad affascinare alcuni artisti New Dada e Pop americani come Jasper Johns, Robert Rauschenberg, Claes Oldenburg, Roy Lichtenstein o Andy Warhol, che collaborano con Tiffany o Bonwit Teller, per creare singolari interazioni d’arte e prodotto, materiali poveri e merci preziose che non mancano di rivoluzionare l’immaginario, trasformando le loro attività di window dresser in un rilevante contributo alla cultura merceologica statunitense.
Particolarmente significativi, gli anni Ottanta, con la grande evoluzione della moda, accrescono a dismisura il fascino del display, che Franco Moschino utilizza in prima persona, facendo della sua vetrina milanese su Via Sant’Andrea uno strumento indimenticabile di comunicazione. Un messaggio in progress rivolto al pubblico della strada, nonché un suo modo inconfondibile d’informare e divulgare opinioni sui condizionamenti del fashion system, l’ambiente e l’identità del tempo. Un tempo postmoderno nel quale tutto ritorna sul filo di libere associazioni, remake e ridisegni del sapere occidentale, nel quale anche Alessandro Mendini, neo direttore di Domus, riprende Ponti e le sue copertine-vetrina, rivisitandole e attualizzandole con il contributo di Alchimia e Occhiomagico, così da trasformarle in un collage di passato e presente, moda, design e architettura.
D’altro canto, comincia forse qui la storia di una fascinazione per il prodotto, i suoi design, i suoi straordinari espositori, allestimenti e immaginari, destinata a segnare tutt’oggi la concezione e i contenuti dell’opera d’arte contemporanea. Basti pensare al già citato Claes Oldenburg, Cinzia Ruggeri, John Armleder, Sylvie Fleury, Haim Steinbach o Doriana Chiarini, e ancora a Vanessa Beecroft, Rob Pruitt, Elmgreen & Dragset, Tom Burr, Isabelle Cornaro, Anna Franceschini o Riccardo Paratore. Senza dimenticare peraltro l’esperienza di The Wrong Gallery, fondata a Manhattan nel 2002 da Maurizio Cattelan, Massimiliano Gioni e Ali Subotnick, che proprio dietro a una piccola porta a vetri espone opere create ad hoc. E la lista dei contributi d’artista non si esaurisce senz’altro qui.
Mentre grazie a Hermès o Prada, e Louis Vuitton o Gucci il rituale sotto vetro della moda continua a mantenere vivo il suo fascino, proiettando il display in un futuro ancora ricco di promesse.