Davide Bertocchi: Vorrei iniziare dal titolo della tua recente personale a Parigi, presso la Galerie Michel Rein, “Souvenir d’Italie”, che inevitabilmente suggerisce una tua presa di distanza dall’Italia. Possiamo ritenerlo un tentativo per meglio comprendere il complesso assetto socio-politico-istituzionale italiano?
Luca Vitone: Io non parlerei di presa di distanza, semmai il contrario. Il titolo da “cartolina”, che può inizialmente apparire ironico, rivela piuttosto una tragedia, l’affermarsi di un luogo comune che ne identifica l’italianità. Nei suoi diversi aspetti, politici o folcloristici, influenzati da un rapporto esclusivo con il paesaggio e il suo patrimonio artistico, la sua immagine viene letta spesso con sufficienza o con sospetto, o se va bene con ironico distacco. In realtà, il titolo mi è venuto in mente visitando una mostra al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris dedicata a Giorgio de Chirico (“Giorgio de Chirico. La fabrique des rêves” [2009], nda), mentre guardavo un suo quadro del 1915 con quel titolo, Souvenir d’Italie. Quella staticità metafisica rappresentava perfettamente questa condizione senza tempo. Perenne, eterna, identificabile in un passato remoto o in in futuro fantascientifico. Cambiano gli arredi ma i riti risultano immutati. L’immaginario da “cartolina” persiste nei secoli mostrando un’ideologia dominante da villeggiatura.
DB: De Chirico parlava anche di un apparente “stato di convalescenza” di tutto ciò che lo circondava e che gli dava la strana impressione di vedere le cose come per la prima volta. Forse possiamo parlare anche di una “convalescenza italiana permanente”?
LV: Permanente mi sembra appropriato, per quanto cambino le modalità, lo spirito sembra sempre lo stesso. Forse oggi questa attitudine si manifesta in modo più esplicito, senza vergogna, come qualcuno ha scritto, “quasi con serenità”. Si è legittimati a essere fieri di questi comportamenti, a rivendicarli come espressione di una natura antropologica, espressione di una libertà individuale che trasforma i propri diritti come unico referente della dualità necessaria per una civile convivenza.
DB: Nella mostra hai ripercorso due momenti fondamentali della storia contemporanea italiana: la proclamazione della Repubblica nel 1946 e l’avvento della “Seconda” Repubblica nel 1994, passando attraverso il “Piano di Rinascita Democratica” di Licio Gelli. Con quali presupposti hai affrontato il passaggio dai fondatori della Patria ai 959 nomi dei membri della P2, che hai elencato in forma di epigrafe su grandi steli di carta?
LV: Noi siamo cresciuti con l’idea che la Repubblica Italiana fosse nata dalle ceneri della Seconda guerra mondiale avvenuta dopo la sua dichiarazione proclamata dal governo fascista. Nascita promossa da un gruppo di uomini di cui molti, per le loro scelte politiche nel periodo del Ventennio, hanno trascorso la propria vita in carcere, al confino o in esilio (qualcuno c’è morto), e poi sono confluiti nella Resistenza, nella lotta partigiana, svolta con incarichi politici e militari pensando, scrivendo e preparando una Costituzione che diventasse il fondamento di un nuovo Stato repubblicano fondato sulla libertà di pensiero e della persona. Con l’avvento della cosiddetta Seconda Repubblica si è cercato di scardinare questi concetti iniziando con l’affermare che tutti i morti sono uguali, che Mussolini è stato il più importante statista del secolo, che le isole del confino in realtà erano isole per la villeggiatura, che il periodo del Ventennio è stato un momento florido per l’Italia, fino a dire che l’arrivo degli americani nel ’45 è avvenuto per liberarci dal giogo comunista sovietico. Tutto questo occultando o cercando di sminuire tre realtà fondamentali: la mancanza di libertà personale fisica e di pensiero dell’individuo nel periodo sopra indicato, la dichiarazione di guerra verso gli altri Stati europei che ha causato decine di milioni di morti, la promulgazione delle leggi razziali che hanno avallato una fabbrica di morte che ha annientato industrialmente circa sei milioni e mezzo di vite umane in meno di cinque anni. Non so dire se la Seconda Repubblica sia mai veramente nata, ma a molta stampa e a molti politici piace dire questo, a me interessa come metafora di un nuovo ordine governativo fondato sulla confusione dei ruoli, la delegittimazione della memoria storica, il controllo sociale attraverso quello dei mezzi di comunicazione, lo sfaldamento dello stato sociale, rappresentato principalmente da scuola e sanità, per privilegiare quello privato, controllato e governato da una stretta cerchia di famiglie. La delegittimazione della cultura come atto fondativo di un paese. Non so dire se la P2, come afferma Giorgio Galli, non sia stata, come hanno cercato di farci credere, un reale pericolo per l’ordine costituito, ma al contrario sia stata una banda di cialtroni che al di là dei loro interessi economici non hanno saputo o voluto compromettere l’ordine dello Stato e che sia servita come capro espiatorio per ogni mistero che non si poteva o voleva chiarire. Per questo per me rimane metafora di un’Italia (e dell’italiano) dei Misteri che con la scusa di delegare le responsabilità gravose ad altri non si rende garante di decisioni e scelte per l’attuazione di cambiamenti propositivi per il miglioramento della nazione. Non bisogna dimenticare, però, che in quella ipotetica congrega di cialtroni ce n’era uno, all’epoca giovane rampante, che ha trasformato l’immaginario del paesaggio culturale e politico italiano a proprio interesse economico e che da vent’anni determina la conduzione politica della nazione facendo sì che il proprio patrimonio forse in crisi all’inizio degli anni Novanta sia diventato uno dei più consistenti e solidi al mondo. Anche qui l’interesse del paese va in sottordine a quello personale e familiare.
DB: Quindi, l’elenco dei nomi dei piduisti, tra cui appare appunto Berlusconi e tanti altri personaggi noti, può essere considerato anche come una forma di eco al celebre “Io so” di Pasolini? Le prerogative che attribuiva all’intellettuale erano proprio di “immaginare ciò che non si sa o che si tace, mettere insieme frammenti e ristabilire la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”.
LV: L’intellettuale, l’artista, di qualsiasi disciplina faccia parte, è sempre stato una sorta di veggente e come tutti i veggenti a volte c’azzecca e a volte no. Ma non è l’aspetto divinatorio che è rilevante, ciò che importa è che dicendo o mostrando determinate affermazioni l’autore si assume delle responsabilità che non sempre si ha il coraggio di prendere per un sentimento diffuso di quieto vivere. E questo atteggiamento da noi è particolarmente accentuato. D’altra parte il nostro è uno Stato in cui il rapporto tra potere e cittadino non si è mai evoluto, ma al contrario si è adeguato in modo autoritario, nonostante un regime democratico, rafforzando una relazione tra potere e suddito. Bisogna anche aggiungere che l’Italia è un paese in cui gli organi istituzionali che ne dovrebbero tutelare la sua difesa, i cosiddetti servizi segreti, non hanno mai agito affinché si rilevassero delle responsabilità sui molti misteri che ne hanno ferito la società. Ultimo in ordine di tempo è la recente sentenza riguardante la strage di piazza della Loggia a Brescia.
DB: A questo punto sento la necessità di girarti una domanda che si pone Artur Zmijewski nel suo discusso saggio The Applied Social Arts (Arti sociali applicate): l’arte contemporanea ha un impatto sociale visibile? Può prodigarsi nella produzione di un sapere politicamente utile?
LV: La risposta è complessa e parzialmente dolente. Pochi giorni fa durante una chiacchierata organizzata intorno a una tavola imbandita all’ambasciata italiana a Berlino dall’ambasciatore Michele Valensise, insieme ad altri artisti italiani residenti in città, me ne sono uscito con un’affermazione che ripeto spesso in situazioni analoghe o pubbliche e che riguarda l’assenza istituzionale intesa come committenza, supporto e difesa della cultura contemporanea nazionale: se nel XVII secolo non avessimo avuto famiglie aristocratiche e clero, oggi non avremmo il Barocco italiano, che non solo arricchisce il patrimonio culturale nazionale, come altre esperienze di periodi precedenti, ma contribuisce a incrementare un indotto economico portato da quei turisti che raggiungono il Bel Paese proprio per godere di questo patrimonio. Giustamente sono subito stato corretto da Riccardo Previdi che ha aggiunto che sì, tutto ciò è vero, ma oggi ci sono altri ambiti disciplinari che assolvono il ruolo determinante di rappresentare l’immaginario contemporaneo, come il cinema e la televisione. Questo testimonia l’invisibilità dell’Arte in ambito mediatico ma, a mio giudizio, non giustifica del tutto la totale assenza a cui assistiamo. Ogni volta che un mezzo di comunicazione nazionale interroga genericamente l’ambito culturale su temi riguardanti la politica, la gestione, l’economia di una città o della nazione, quasi sempre vengono intervistate personalità di età diverse appartenenti all’architettura, al cinema, alla letteratura, al teatro o alla moda. Mai, o quasi mai, all’arte e soprattutto agli artisti. Quando questo accade, invece, si interpellano sempre quei soliti quattro nomi di ultra settantenni, come se non ci fosse mai stato un ricambio generazionale. Non voglio togliere responsabilità a noi stessi, che sicuramente ne abbiamo, ma l’Istituzione, nei confronti dei cittadini, certamente ha le sue colpe; basti pensare, per essere sintetici, che Milano per quindici anni non solo non ha avuto un museo d’arte contemporanea ma, nonostante la retorica del Made in Italy e il fondamentale contributo, in particolare dal secondo dopoguerra, nell’immaginario domestico e nell’abbigliamento, neppure un museo della moda o uno vero del design. Nonostante la nostra sia, soprattutto in Italia, una disciplina di nicchia — anche se economicamente non lo dimostrerebbe, data la quantità di soldi ufficiali e non che riesce a smuovere —, devo aggiungere che, quando si dimostra critica e non inutilmente spettacolare, ha la facoltà di assumere un ruolo interstiziale come il sentimento anarchico alla Colin Ward, che pungola la sensibilità civica dell’individuo cercando di renderlo partecipe, consapevole, responsabile nell’ambito vitale in cui risiede, stimolando domande, proponendo cambiamenti, attuando sperimentazioni e ispirando operatori di altre discipline. Un costante rapporto tra sapere e potere in cui il primo determina il valore del secondo, mostrando quanto sia importante l’espressione della conoscenza per la costituzione di un potere dall’immaginario aperto al confronto. L’artista assume il ruolo di tramite, una responsabilità che lo porta a rendersi visibile e disponibile al pubblico contraddittorio, argomento non scontato che a lungo ha fatto pensare alla sua figura relegata o appartata come se agisse in un territorio trascendente.