Rivendicare il carattere refrattario dell’immagine quale entità che caparbiamente resiste, parrebbe essere il cuore sotteso alla personale di Maurizio Cattelan “Breath Ghosts Blind”, allestita presso gli spazi dell’HangarBicocca. Al di là della vulgata dell’artista provocatore, pericolosamente simile a un diversivo da adoperare all’uopo, Cattelan sembrerebbe anzitutto un febbrile sperimentatore di immagini. Lo afferma egli stesso, ravvisando nell’individuazione dell’immagine il motore della propria ricerca e lo ribadisce Franklin Sirmans nel definirlo un “image maker” che lavora sul “mormorio” (murmur) delle immagini quando esse si sedimentano nella mente.
“Breath Ghosts Blind” sembra intersecare due distinti filoni della produzione di Cattelan. Da un lato, quello dell’artista collettore e manipolatore di immagini, un iconologo che oscilla tra il montatore benjaminiano e il grafico di professione – ossia, il redattore delle riviste Permanent Food (2003), Charley (2007) e Toilet Paper (2010). Dall’altro il Cattelan che si confronta con la drammaticità della storia recente e con la complessa valenza testimoniale dell’opera d’arte. Allo sberleffo meteorico, mordace o erotomane, si contrappone la materialità mortifera di Lullaby (1994) e di Novecento (1997), o l’anti-monumento anonimo di All (2007).
La personale di Cattelan, a dieci anni dall’ultima realizzata a Milano, si attesta quale ambiente o, come sottolineato dai curatori, quale drammaturgia in tre atti. L’accesso alla mostra coincide con un’esperienza di ingressione in cui l’illuminotecnica, magistralmente orchestrata da Pasquale Mari, tonalizza atmosfericamente lo spazio espositivo. Varcata la soglia, il visitatore viene inghiottito in una densa notte artificiale. Scorgiamo a stento il nostro corpo e debolmente quello degli altri. Siamo circondati dalle ombre sussurranti dei visitatori e addetti ai lavori. Ciò che invece emerge, anzi addirittura brilla nel suo esibirsi vertiginosamente sottodimensionato, è il complesso marmoreo di Breath (2021). Accovacciate a terra giacciono le sculture abbacinanti di un uomo e di un cane, eredi elegiache di Andreas e Mattia (1996) e Kenneth (1998). Breath rivela molto del funzionamento dell’organismo-mostra di Cattelan, impostato su due parametri strutturali: l’attivazione dinamica dello spazio e il potere refrattario, si direbbe worringeriano e metalinguistico, dell’astrazione. Breath genera lo spazio per contrazione, letteralmente risucchiandolo e catalizzando lo spettatore, mentre il suo quasi-realismo nulla aggiunge allo statuto di quei corpi vulnerabili: sono davvero dormienti? Attraversando la navata la configurazione dello spazio muta, sebbene le presenze attorno a noi rimangano umbratili. L’installazione panottica Ghosts (2021), stormo di piccioni tassidermizzati ed “ex-biennalisti” asserragliati lungo lo scheletro architettonico, ne dilata il perimetro, improvvisamente metropolitano. Blind (2021), acme non teleologica del trittico, si disvela solo progressivamente. Dalla navata intravvediamo un monolite kubrickiano o minimalista, talmente opaco da risultare bidimensionale. L’ingresso nel cubo culmina con il phainesthai dell’immagine e, contestualmente, del pubblico finalmente visibile: un monumento a commemorazione dell’11 settembre 2001 trattiene il corpo di un aereo che ne interseca il volume. Cecità nella visibilità del giorno, aporia dell’irrappresentabile. Le persone si raccolgono sul perimetro della stanza, tentennano: il monumentum, refrattario alla luce, grava sproporzionato sullo spazio, saturandolo fisicamente e metaforicamente.
Si diceva che Cattelan è un infaticabile creatore di immagini che ambisce, per sua stessa ammissione, a rendere l’opera, a prescindere dal medium, un’immagine. “Breath Ghosts Blind” non potrebbe esistere senza la fagocitante imagosfera cui tenta di resistere e che concorre a plasmare digitalmente la narrazione. Ogni scelta avallata dall’artista, tuttavia, mira a rallentare il flusso immaginifico. I corpi inerti, gli occhi fissi, la memoria cristallizzata. L’immagine resiste all’obsolescenza della velocità tardocapitalista e si incarna in sculture opache che resistono, inglobano e obbligano a fermarsi. Persino il flusso delle persone, nel notturno, appare neutralizzato. Nel momento del disvelamento, del manifestarsi del reale, arrestarsi non è più un obbligo, ma una scelta necessaria.