Giacinto Di Pietrantonio: All’inizio…
Nanni Balestrini: All’inizio scrivevo poesie, come tutti gli adolescenti che scrivono incerte imitazioni dei poeti preferiti, e poi o si arriva a trovare una propria strada o si smette. A Milano, dove sono nato, ho avuto la fortuna di avere come professore al liceo Luciano Anceschi, a cui ho potuto far leggere le mie prime cose e che mi ha dato consigli fondamentali. Grazie a lui ho pubblicato le mie prime poesie sulla rivista MAC Espace di Gillo Dorfles. E in seguito, quando Anceschi ha creato la rivista Il Verri ne sono stato una specie di redattore tuttofare, cosa che mi ha messo in contatto con il mondo della cultura, mi ha fatto conoscere scrittori, critici, filosofi e artisti. Andavo al bar Giamaica che era frequentato dagli artisti (Gianni Dova, Roberto Crippa, Enrico Baj, Arnaldo Pomodoro…), e lì ho conosciuto e fatto amicizia con quelli che erano miei coetanei: Piero Manzoni, Enrico Castellani, Vincenzo Agnetti… Si realizzavano riviste, come Il Gesto e Azimuth, dove pubblicavo poesie e presentazioni delle loro prime mostre. Già i miei primi testi rifiutavano la forma lineare, erano accumuli di versi spezzati.
GDP: Era qualcosa che aveva riferimento con la scrittura d’avanguardia, come accadeva con il Futurismo e il Dadaismo…
NB: Naturalmente, quella delle avanguardie dell’inizio del secolo era una tradizione a cui molti poeti giovani si riallacciavano, ma era anche una mia predisposizione naturale a una poesia fatta d’impulsi, rompendo la linearità della linea tipografica. E visto che facevo grande uso di citazioni, mi è venuta poi l’idea di ritagliare titoli di giornale e farne dei collage.
GDP: Come sceglievi e scegli i titoli dei giornali per i tuoi collage?
NB: Mi interessava arrivare a un testo che, a differenza di quello che scorre nelle righe di un libro, potesse essere letto in più direzioni, come si osserva un quadro, con l’occhio che crea ogni volta diversi accostamenti, nuove variazioni. La scelta dei testi avveniva per impulsi, consonanze o assonanze di frammenti verbali che decontestualizzavano. Lo sminuzzamento progressivo delle frasi, e poi delle parole, e poi anche delle lettere dell’alfabeto mi ha portato recentemente a creare superfici di segni che sono diventati grandi teli di tessuto stampato. Ho realizzato anche una parete di 7 metri per 7 in una mia mostra alla Fondazione Mudima di Milano nel 2006, e l’anno scorso ho interamente tappezzato tre grandi saloni di Palazzo Ruffo di Bagnara, presso la Fondazione Morra a Napoli. In tutto questo c’è il tentativo di ottenere nuove dimensioni visive da una scrittura formata da elementi poveri quali sono le lettere del nostro alfabeto fonetico, infinitamente meno ricco di possibilità espressive degli ideogrammi cinesi, per esempio.
GDP: Che valore ha per te la forma?
NB: Utilizzo scritture, per lo più tipografiche, variamente frammentate, creando forme di vario tipo, compatte o superfici disseminate, ma anche forme tridimensionali come cubi, sfere, colonne… Oggetti verbali le cui forme spesso tendono ad annullare, o comunque hanno un rapporto ambiguo con i significati delle parole di cui sono composti.
GDP: La tua prima mostra è stata alla Galleria Blu di Milano?
NB: Sì, ho partecipato ad alcune mostre nei primi anni Sessanta, a Milano e anche a Roma, alla libreria Ferro di Cavallo. Esponevo insieme ad altri miei amici poeti come Antonio Porta e Alfredo Giuliani, le loro opere erano fatte in collaborazione con pittori: Gastone Novelli collaborava con Giuliani, per esempio. Per loro sono stati eventi sporadici che non hanno avuto seguito, mentre io non ho mai smesso di fare i miei collage, anche se non mi preoccupavo troppo di esporli.
GDP: In questa tua avventura sperimentale parallela sei stato uno dei primi a servirti del calcolatore elettronico che oggi si chiama computer .
NB: Nei primi anni Sessanta, anche se non esisteva ancora il digitale, si sperimentavano le prime tecnologie elettroniche. A Milano c’era lo Studio di Fonologia della RAI, dove i musicisti producevano la prima musica elettronica. Ci operavano Bruno Madera, Luciano Berio e Luigi Nono con cui collaboravo. Nel 1961 ho realizzato la prima poesia con un calcolatore elettronico. L’IBM mi aveva messo a disposizione un ingegnere con il quale preparammo un programma che combinava una serie di versi secondo alcune semplici regole che venivano comunicate alla macchina con le schede perforate che si usavano allora. E in poco tempo il calcolatore produsse un grandissimo numero di poesie, tutte diverse combinazioni di quei versi. La cosa fece scandalo: in che modo una cosa sublime come la poesia poteva essere creata da una macchina (che in verità non crea niente, esegue solo passivamente delle istruzioni)? L’interesse dell’esperimento è nella velocità con cui le combinazioni si compiono, e nei risultati imprevisti e casuali che si ottengono.
GDP: L’hai sperimentato anche oggi con il personal computer?
NB: Me ne servo ancora per combinare, che è una delle operazioni fondamentali della poesia. Col PC tutto è più semplice e immediato e non occorre l’aiuto di un ingegnere. E con la nuova elettronica digitale sono finalmente riuscito a realizzare un vecchio progetto, quello di Tristano. Negli anni Sessanta, dopo la “poesia elettronica” di cui ho parlato, avevo pensato di comporre anche un “romanzo elettronico”, sempre utilizzando le possibilità combinatorie del calcolatore. Avevo preparato tutto il materiale narrativo combinabile, ma è sorto subito un problema: con le stampanti esistenti allora sarebbe stato impossibile produrre una serie di romanzi, di libri tutti diversi l’uno dall’altro, come era nel progetto. Ci sarebbe voluto un tempo enorme e la carta su cui si stampava non era rilegabile. Mi sono così rassegnato a combinare una sola versione e a pubblicarla da Feltrinelli, stampata in un tradizionale libro gutenberghiano. Ma quarant’anni dopo, la nuova stampa digitale ha reso possibile il mio progetto. Con una di quelle grandi stampanti digitali ho stampato alcune migliaia di copie di Tristano secondo l’antico programma. Esemplari tutti diversi nella combinazione del testo, in modo che ogni lettore ne possieda uno suo personale, una sua storia unica.
GDP: Questo forse ha a che fare con l’interesse per l’oralità nella scrittura, perché ogni volta che raccontiamo la stessa storia, la raccontiamo in maniera un po’ diversa?
NB: È così, ogni storia è tante storie, diverse, a seconda di quando viene raccontata e a chi viene raccontata. In un libro tradizionale bisogna ridurle in una versione unica, lasciando solo uno spazio di libertà all’interpretazione del lettore. Io ho cercato di ampliare questo spazio.
GDP: Il primo Tristano era uscito negli anni Sessanta, anni mitici. Per te sono stati gli anni del Gruppo 63. Poi c’è stato il ’68, che per te ha significato molto…
NB: Il Gruppo 63 nasce da una generazione di scrittori che appare tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta: Edoardo Sanguineti, Umberto Eco, Alberto Arbasino, Giorgio Manganelli e altri, che si opponevano alla cultura ufficiale, agli autori delle generazioni precedenti: Moravia, Cassola, Bassani, Montale. Avevamo la percezione che il paese stesse cambiando, che fosse in atto una grande trasformazione economica e sociale, quello che è stato chiamato il miracolo economico, il passaggio traumatico da un’Italia agricola a un’Italia industriale. Avevamo l’impressione che gli scrittori della generazione precedente si riferissero a una realtà che ormai non esisteva più, che i loro personaggi parlassero una lingua che non era più quella che si ascoltava per le strade. Si era formata, infatti, una nuova lingua italiana, con le grandi migrazioni di operai del Sud nelle fabbriche del Nord, con la scuola dell’obbligo e soprattutto con la televisione era nata una lingua per la prima volta uguale per tutta la penisola.
GDP: Hai ideato e lavorato a riviste come Alfabeta, che ebbe un grande successo e che aveva creato e importato il dibattito culturale del postmoderno, apparso in quegli anni di cambiamenti. La rivista, avviata nel ’79 in formato tabloid con la grafica di Gianni Sassi, era già esistita in formato più piccolo, anch’essa finanziata da Gino Di Maggio, con titolo e grafica ideati da Ben Vautier. La prima versione era concentrata sull’arte, ricordo la ripubblicazione di un articolo di Gramsci dal titolo “Marinetti rivoluzionario?”. Un articolo del 1921 che si concludeva parlando, molto in anticipo sui tempi, della portata rivoluzionaria del movimento futurista. Come avvenne il passaggio di formula?
NB: Nel 1979, mentre la repressione poliziesca e giuridica stava distruggendo il movimento nato dal ’68 e limitando le libertà di opinione e di informazione, con un gruppo di intellettuali (Maria Corti, Umberto Eco, Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti, Mario Spinella, Paolo Volponi) decidemmo di intervenire con una rivista in una situazione difficile per la vita culturale. Gianni Sassi si occupò dell’aspetto editoriale, insieme a Gino Di Maggio che mise a disposizione il titolo Alfabeta per la nuova rivista, che non aveva nessun rapporto con la precedente edizione dedicata all’arte. Per dieci anni Alfabeta è stato il più importante organo culturale italiano e attraverso il riflusso degli anni Ottanta mantenne vivo il dibattito culturale.
GDP: Tornando al passato, negli anni Sessanta ti trasferisci a Roma.
NB: Nel 1963 da Milano mi sono trasferito a Roma per occuparmi della sede romana della Feltrinelli, casa editrice per la quale lavoravo già da un paio d’anni. Conobbi Plinio De Martiis: la Feltrinelli era vicinissima a piazza del Popolo, dove vi era la sua galleria, La Tartaruga. Allora a Roma la vita culturale era molto raccolta: scrittori, pittori, gente del cinema si conoscevano e si frequentavano, si incontravano negli stessi bar, nelle stesse trattorie… era come un grande villaggio, e tutti si ritrovavano la sera a piazza del Popolo, al Caffè Rosati. Frequentavo gli artisti della nuova generazione che avevano iniziato a esporre proprio presso La Tartaruga: Giosetta Fioroni, Mario Schifano, Franco Angeli… Eravamo amici, ci vedevamo spessissimo e realizzavamo dei progetti assieme. Era normale che poeti, scrittori e musicisti collaborassero tra loro, era un mondo che adesso è completamente scomparso.
GDP: Poi nel 1968 c’è stata la mostra intitolata “I muri della Sorbona”, presso La Tartaruga…
NB: C’era il Maggio francese, io ero già andato a Parigi più volte in quel periodo. Quando a La Tartaruga ci fu il progetto intitolato “Teatro delle Mostre” ero là per raccogliere materiale per la rivista di cui mi occupavo, Quindici. Plinio De Martiis mi aveva chiesto di ideare qualcosa per il “Teatro delle Mostre”, e vedendo gli slogan della contestazione scritti sui muri della Sorbona avevo pensato di trasferirli sulle pareti della galleria. Tornai a Roma in aereo all’ultimo momento il giorno dell’inaugurazione e dall’aeroporto dettai per telefono le prime frasi tradotte per farle scrivere sui muri della galleria.
GDP: Ma voi della Neoavanguardia come vivevate all’interno della sinistra il fatto che i partiti di sinistra non amassero l’avanguardia e la considerassero un trastullo per borghesi?
NB: Era il PCI che voleva avere il dominio sulla cultura, ci ha sempre attaccati ferocemente. Ma quando hanno visto che una parte della nuova generazione metteva in discussione la nozione di impegno nella cultura come dipendenza dalla linea del partito, ha cercato di aprirsi un po’, anche se con una certa cautela. Però il vero problema era che ci volevano sempre mettere le mani sopra, mentre noi eravamo per l’autonomia della cultura, per il disimpegno dai partiti, non volevamo dare alla politica la gestione della cultura. I libri che ho scritto negli anni Settanta, Vogliamo tutto, Gli invisibili e L’editore, si inseriscono in queste problematiche.
GDP: In questo processo di ricerca civile e poetica dell’avanguardia ne Gli invisibili arrivi addirittura ad abolire la punteggiatura…
NB: Questo è stato per cercare di dare alla scrittura il senso dell’oralità, per avvicinarla al parlato, alla voce del protagonista che narra, evitando ogni intervento diretto dell’autore, ogni imposizione o interferenza ideologica esterna.
GDP: Ma questo ha a che fare anche con la ricerca che facevi e fai nel campo visivo, dove le opere sono fatte di parole una incollata all’altra e/o sull’altra?
NB: Possiamo dire che si tratta sempre di considerare la parola come un oggetto, una materia da plasmare. Il collage visivo da una parte e il flusso narrativo asintattico che simula l’oralità dall’altra, sono due diverse modalità per restituire il linguaggio nella sua fisicità originaria e fare di essa il significato dominante.
GDP: Poi sei dovuto andare in esilio in Francia, accusato insieme a Negri, Scalzone e altri di essere dietro il terrorismo. In Francia l’arte visiva che senso prende?
NB: Sono stato costretto a un esilio di cinque anni in Francia per evitare di essere arrestato per “attività sovversiva”, data la mia vicinanza ai gruppi extraparlamentari dell’estrema sinistra. Per poi venire assolto, quando dopo cinque anni si è fatto il processo. Ma è stato in questo periodo che ho avuto modo di impegnarmi a fondo nell’arte visiva, a cui fino ad allora mi ero dedicato saltuariamente. In seguito ho sviluppato il mio lavoro in nuove direzioni e, sempre basandomi sugli elementi della scrittura, l’ho ampliato, operando anche nello spazio con sculture e installazioni; ho partecipato a esposizioni sempre più numerose, in gallerie e musei e ora, insieme alla poesia, costituisce la mia attività principale.