Il seguente testo fa parte della sezione Protagonisti. Voci e visioni del presente di Flash Art Italia – Agenda 2025 che si propone come una cartografia del presente – non esaustiva ma rigorosa – dove le traiettorie di oltre trenta artisti si intersecano e si illuminano reciprocamente, pur mantenendo le proprie specificità linguistiche ed espressive. Il dialogo tra questi percorsi artistici, che spaziano dalla pittura alle pratiche relazionali, dalle ricerche materiche alle sperimentazioni digitali, è orchestrato attraverso le voci di curatori, curatrici, critici e studiosi.
SAGG Napoli
Qualche mese dopo aver visto SAGG Napoli performare l’arciere, uno dei suoi molteplici personaggi a Basement Roma1, mi è tornata in mente l’immagine di Arnold Schwarzenegger culturista in posa come una statua classica vivente su una piattaforma girevole al Whitney Museum nel 1976. La performance, dal titolo Articulate Muscle: The Male Body as Art, vedeva Schwarzenegger posare flettendo i muscoli, insieme a due suoi contemporanei, di fronte a una folla di 5000 persone, tra cui critici e storiche dell’arte. In realtà, si trattava di una trovata pubblicitaria volta a raccogliere fondi per completare il documentario iconico del 1977, Pumping Iron. Schwarzenegger, come SAGG Napoli oggi, non si accontentava di un’unica identità: in quegli anni infatti stava introducendo e articolando, attraverso il suo corpo, nuove forme plastiche di celebrità. Il corpo di SAGG Napoli, atleta e artista, è radicato, esteso e plasmato dalle diverse identità che Napoli contiene; la città in cui è cresciuta, che ha lasciato da giovane e nella quale è riuscita a tornare, prima di spostarsi a Milano. Questa sua ultima partenza ha coinciso con un momento di attenzione nazionale e internazionale senza precedenti per la capitale partenopea, che è divenuta l’ultima frontiera del consumo eccessivo post-pandemico dell’Italia – di cui Napoli stessa incarna l’”Altro”. Ed è in questo contesto che SAGG Napoli opera personificando e decostruendo stereotipi, ma anche agendo come una voce protettiva di protesta contro la cannibalizzazione fisica e spirituale del tessuto culturale della città: «Use my city as a theme park i cancel → you / My culture as a costume I cancel you» (dalla mostra collettiva Vendi Napoli e poi muori alla Galleria Fonti, Napoli, 2019). Come parte della mostra Nacquero a Napoli improvisandosi: modelle – cameriere – manicuriste – arciere – motocicliste – scassacazzo – pazze – artiste compagne e scompagne in duo con Betty Bee presso zaza’ a Milano nel 2024, SAGG posa, a muscoli contratti, in una serie di quattro ritratti di nudo – i primi di dodici immagini – «idealmente un calendario nelle intenzioni dell’artista»2.
Gli oggetti di scena e i fondali, tutti generati dall’intelligenza artificiale, evocano il palinsesto simbolico di Napoli e dei suoi dintorni, alti e bassi / passato, presente e futuro: l’artista corre accanto ai corridori di bronzo di Ercolano, immortalati insieme contro uno sfondo rosso pompeiano; subito dopo, la stazione ferroviaria di Afragola progettata da Zaha Hadid che indica la traiettoria della freccia che SAGG, con la schiena rivolta allo spettatore, sta per scoccare; una spiaggia al tramonto, con il cielo illuminato dai fuochi d’artificio e uno skyline montuoso e industriale che incornicia un nudo reclinato, teso su una motocicletta, con lo sguardo verso il cielo; e poi, finalmente, in piedi davanti a una vetrina adornata dall’opulenza settecentesca, lei che guarda dritto verso di te. In tutte le immagini, la patina riflettente che ricopre il corpo di SAGG Napoli si rispecchia nelle superfici circostanti: le vetrine, i corpi in bronzo, il lucente metallo della motocicletta. Mi viene in mente il titolo di un’altra serie dell’artista: “E cos favz s’appicn”, ovvero: “le cose false sono infiammabili”. In queste immagini c’è un tentativo di confondere superficie e profondità, immortalità monumentale e volgare profanità: ciò che vedo come stereotipo o percepisco come falso dall’esterno, potrebbe essere vero, e viceversa. Ma SAGG come neanche Napoli svelano o sveleranno mai questi segreti.
Monia Ben Hamouda
In un saggio del 20013 sul processo di costituzione di un archivio, nello specifico quello degli artisti della diaspora nera nel Regno Unito, Stuart Hall, padre degli studi culturali degli anni ’70 e fondatore della «New Left Review», riflette sul significato dei termini “diasporico,” “sincretico,” “tradizione,” che definisce come “viventi” e quindi “in corso, continui, non finiti, aperti,” soggetti a dubbio e nuove interpretazioni. Ciò che viene definito diaspora, secondo Hall, opera under erasure e non richiede una lettura chiusa basata su concetti binari come differenza e identità, copia o originale, interno ed esterno, ma piuttosto una convinzione che i significati non possano essere definiti. E «how much more true is this of the visual signifier, whose numinous reverberations are broad and deep, but whose power of reference is less precise than the linguistic sign4» afferma Hall, prima di arrivare a ciò che, attingendo alle parole di Kobena Mercer, definisce infine “diasporico”: «Across a whole range of cultural forms, there is a ‘syncretic’ dynamic which critically appropriates elements from the master code of the dominant culture and ‘creolises’ them, dis-articulating given signs and re-articulating their symbolic meaning otherwise»5. Il lavoro scultoreo di Monia Ben Hamouda riconfigura e apre i significati chiusi dei segni e dei gesti attraverso i quali opera: immagini che sono “quasi immagini”, linguaggio astratto, materiali disgiunti, atti di distruzione visibili e impliciti, che potrebbero essere meglio definiti come gesti dirompenti che suggeriscono anche la loro ricorrenza nella storia globale della rappresentazione. La sua opera nasce dalla semina di culture diverse – le origini tunisine della sua famiglia, radicate in un sincretismo secolare tra islam e sistemi di credenze tuareg, e la sua vita trascorsa in Italia – attraverso molteplici geografie e temporalità, che nelle loro manifestazioni materiali non cercano di essere intrecciate, ma piuttosto appaiono sparse o al massimo legate ritualmente.
La sua più recente installazione, Theology of collapse (The Myth of Past) (2024), fa parte del premio BVLGARI al MAXXI di Roma intreccia fili che trovano origine in lavori precedenti dell’artista. Composta da dieci pannelli in acciaio intagliati al laser e ricoperti di spezie, ciascuno corrispondente a moduli architettonici di diverse moschee del mondo, l’opera si configura come come un’unica parete in caduta, inclinata in direzione opposta rispetto al muro strutturale interno del museo progettato da Zaha Hadid. Come in molte altre sculture dell’artista, i vuoti, che nella loro assenza permettono l’ingresso della luce, sembrano avere una maggiore densità rispetto agli elementi solidi e apparentemente erosi dei pannelli. Nelle parole dell’artista, che ha iniziato a concepire l’opera all’inizio del genocidio a Gaza, essa nasce da una riflessione sul significato del costruire un muro oggi, costruire un muro oggi, non solo come elemento di separazione, ma come portatore di linguaggio.6 Ciò che Ben Hamouda ha costruito e congelato in un movimento di perpetuo crollo è, in effetti, un pezzo di muro che si raddoppia attraverso il riflesso caotico e mutevole dei suoi vuoti ornamentali e calligrafici sulla parete del museo, inclinata nella direzione opposta. Lo spazio tra le due superfici si amplia man mano che lo sguardo della visitatrice si muove verso l’alto, in direzione del lucernario, mentre a terra siamo circondati dai variopinti detriti delle spezie che Ben Hamouda ha sparso sul pavimento.
L’ambivalenza che Ben Hamouda crea nella relazione tra immagini e linguaggio sembra quasi un effetto a catena: se non puoi fidarti dell’uno, perché fidarti dell’altro? Se ne decostruisci uno, devi anche decostruire l’altro. Ben Hamouda è figlia di un calligrafo islamico ed è cresciuta nella tradizione dell’aniconismo, che evita la rappresentazione di esseri senzienti nell’arte religiosa, una “limitazione” che ha lasciato i regni della calligrafia, dell’astrazione e dell’architettura aperti a secoli di esplorazione creativa. Per quanto riguarda il linguaggio, mi sento incline a ipotizzare che la traduzione – linguistica e culturale – con i vuoti e le incomprensioni che comporta, possa anch’essa condurre alla necessità di cercare e sviluppare un piano alternativo di espressione che abbracci entrambi, pur accogliendo il potenziale espressivo dei materiali grezzi. L’enfatizzazione dei materiali grezzi e dei “segni grezzi” è il punto focale attraverso cui Ben Hamouda ridefinisce il significato: in relazione alla propria eredità e storia personale, ma anche come rifiuto dei tropi stereotipati attribuiti alla popolazione araba in Occidente. Per tornare alle parole di Hall e Mercer, un’“attitudine diasporica” può essere intesa “in termini di un’interruzione”, che «seeks not to impose a language of its own…but to enter critically into existing configurations to re-open the closed structures into which they have ossified7».
Jim C. Nedd
Nelle scene iniziali del film di Wim Wenders del 1989, Notebook on Cities and Clothes, il regista riflette sulla relazione tra il ritmo esponenzialmente crescente della produzione di immagini e quello che vede come un conseguente cambiamento nei significati dell’identità. You live wherever you live, you do whatever you do, you talk however you talk, you eat whatever you eat, you wear whatever clothes you wear, you look at whatever images you see…you’re living however you can. You are whoever you are ‘Identity’… of a person, of a thing, of a place. “Identity” The word itself gives me shivers. It rings of calm, comfort, contedness. What is it, identity? To know where you belong? To know your self worth? To know who you are? How do you recognize identity? We are creating an image of ourselves, we are attempting to resemble this image… Is that what we call identity? The accord between the image we have created of ourselves and…ourselves? Just who is that, “ourselves”? We live in the cities. The cities live in us…time passes. We move from one city to another, from one country to another. We change languages, we change habits, we change opinions, we change clothes, we change everything. Everything changes. And fast. Images above all change faster and faster and they have been multiplying at a hellish rate ever since the explosion that unleashed the electronic images. The very images that are now replacing photography. We have learned to trust the photogrphic image. Can we trust the electronic image? With painting everything was simple. The original was unique and each copy was a copy, a forgery. With photography and then film, it began to get complicated […] but now the very notion of the original is obsolete, everything is copy, all distinctions have become arbitrary. No wonder the idea of identity finds itself in such a feeble state. Identity is out, out of fashion.8
Sono passati trentacinque anni e le sue parole riecheggiano e cedono allo stesso tempo. L’identità, e in particolare l’identità culturale, è un tema urgente, mentre le immagini continuano a moltiplicarsi e a ingannare. L’artista, musicista e fotografo Jim C. Nedd è interessato al potenziale di verità delle immagini, sviluppando linguaggi visivi e sonori che mettono in discussione il confine tra documentario e poesia, dal pre-conscio a ciò che resta fuori e oltre il quadro o il frammento sonoro, tra controllo e contingenza. Linguisticamente parlando, i post-strutturalisti sostengono che la verità di un evento dipenda interamente dal linguaggio usato per descriverlo. Nedd, tuttavia, è più interessato al ricordare – nel senso corporeo e sinestetico – piuttosto che al descrivere. Il suo progetto Remembering Songs (2017-2023), che culmina nel suo primo libro monografico, consiste in oltre 300 fotografie a colori che alternano e mescolano documentario e reenactment, tratte sia dalla memoria personale che dall’esperienza collettiva nella sua nativa Colombia.
Oltre alla sua identità culturale, lo “stare in bilico” caratterizza l’estetica di Nedd su più livelli: è in parte musicista, in parte fotografo di moda e art director, registri che utilizza e ibrida nella sua pratica artistica. Come suggerisce il titolo, queste opere poetico-politiche hanno una chiara intenzione sonora e aptica nel catturare immagini festive di scene cerimoniali e carnevalesche della cultura caraibica, Nedd attinge alla tradizione sudamericana del realismo magico, infondendola con i dispositivi chiaroscurali della fotografia di moda. Le riflessioni di Wim Wenders sull’identità appaiono incomplete perché implicano che la soggettività esista nel vuoto dei corpi individuali: come se il mondo entrasse in noi e rimanesse intrappolato nelle nostre anime e membra senza alcuna forma di negoziazione collettiva. L’identità – come anche i significati, non potrà mai essere “fuori moda” perché è intorno a noi: nella vita quotidiana, nei paesaggi che abitiamo, nei suoni racchiusi nelle immagini che vediamo, e così via. Il progetto fotografico di Nedd sembra essere il capitolo visivo di un più ampio sforzo che include anche Recuerdos II, un’installazione sonora commissionata nel 2024 dalla Haus Der Kunst di Monaco. Come afferma il comunicato stampa, “stabilisce una post-immagine sonora al suo lavoro fotografico” attraverso registrazioni sul campo che includono frammenti di musica registrati per strada. Questi suoni esistono all’interno delle immagini, così come all’esterno; in realtà, entrano ed escono da esse come se fossero anch’esse dei corpi – che ricordano.