Davide Giannella: Un tema che sembra ritornare in tutta la tua ricerca è il racconto del territorio, inteso non semplicemente nella sua connotazione fisica e spaziale ma soprattutto come teatro umano e come luogo di indagine attraverso chi il territorio lo vive quotidianamente. Da cosa scaturisce questo tuo interesse?
Yuri Ancarani: Nei miei primi lavori, incentrati sulla zona di Ravenna, in cui sono nato e cresciuto, questo interesse nell’analisi del territorio, e delle relazioni che in esso o attorno a esso si sviluppano, è venuto totalmente spontaneo. Da sempre mi incuriosisce la possibilità di focalizzare realtà e mutamenti che nella continuità della vita non sarebbero percepiti o che si rischierebbe di dare per scontati. Un buon esempio rispetto a questo discorso è rappresentato da un video del 2003 (Ip Op), in cui il protagonista, un ragazzo nigeriano vestito secondo la moda dei rapper statunitensi, balla a suon di musica hip-hop nella cornice di una classica balera romagnola. Ecco, l’immagine che ne scaturisce è per me fondamentale perché sintetizza egregiamente un momento storico particolare del ravennate. Racconta di come due mondi palesemente distanti, e in parte anche impermeabili l’uno all’altro, stessero iniziando a fondersi e di come inconsapevolmente stessero suggellando un forte cambiamento.
DG: Immagino però che il tuo interesse per la Romagna, tolto l’aspetto affettivo, sia più che altro un veicolo per ragionare anche su grande scala e per parlare in termini molto più ampi.
YA: La questione realmente interessante, o che quantomeno mi sta a cuore, è che si possa riuscire a parlare di argomenti a carattere universale partendo dalla provincia. Non vuole essere una poetica delle piccole cose, piuttosto cerco di focalizzare il mio ragionamento sul modo in cui problematiche globali e ampiamente diffuse riescano a essere individuate con grande facilità su una scala quasi domestica. La provincia diventa un osservatorio privilegiato di cambiamenti culturali globali proprio per una certa resistenza e impermeabilità al mutamento dei propri costumi e del proprio immaginario collettivo. Nonostante Internet e un’evoluzione tecnologica comune ormai al mondo occidentale e orientale, al di fuori delle grandi città i tempi di assimilazione del nuovo sono parecchio dilatati e i cambiamenti inevitabilmente più sentiti, più evidenti.
DG: Hai parlato di evoluzione tecnologica e delle sue ricadute sul tessuto sociale. Per quanto riguarda la tua produzione, pensi che ci sia un parallelo tra un’evoluzione dei contenuti e quella della ricerca tecnologica?
YA: Sino a pochi anni fa c’era una differenza netta tra “il cinema’’ e il mondo dell’immagine video low budget. Con l’assottigliarsi di questa differenza, in seguito allo sviluppo tecnologico, sono approdato a un sistema di produzione totalmente differente. Nei miei primi lavori non potevo lavorare o concentrarmi troppo sull’immagine che, a causa di mezzi tecnici minori rispetto a quelli odierni, era di bassa qualità. Dovevo per forza di cose cercare di salvaguardare l’immagine, sostenendola soprattutto con i suoni e con un montaggio più serrato o quantomeno più presente e netto nella narrazione dell’immagine stessa. Ovviamente, oltre che dai sistemi di ripresa, dipende molto anche dai sistemi di proiezione e quindi di fruibilità. Sapere che un video sarà proiettato all’interno di un televisore da diciotto pollici piuttosto che su uno schermo di 15 x 8 metri cambia sostanzialmente le cose. Credo che sia cambiato molto anche il ritmo dei miei lavori. Progressivamente mi sono allontanato da una produzione che subiva l’influenza linguistica dei videoclip musicali degli anni Novanta. A una struttura e a un montaggio serrato, e quindi a una certa aggressività formale, ora preferisco video dai tempi molto più dilatati e narrativi, video sempre più calmi che riescono a lasciare molto più spazio anche alla contemplazione. Paradossalmente oggi, avendo a disposizione strumenti di altissima precisione, in grado di potenziare ogni aspetto tecnico legato alla regia e grazie all’altissima qualità e definizione raggiunta con il digitale, tendo a privilegiare l’immagine, e quindi a semplificare e alleggerire il lavoro, apportando sempre maggiore enfasi sulla qualità formale e sulla complessità di significato che ogni singolo frame è in grado di veicolare.
DG: Si potrebbe dire quindi che suono e montaggio siano divenuti elementi, più che di sostegno, propedeutici alla fruizione dell’immagine?
YA: Quando inizio a immaginare una storia non penso di prescindere da suono e montaggio, anche perché credo che siano parametri indissolubili. È cambiato però il loro apporto complessivo, è stato circoscritto, è meno evidente appunto perché l’immagine, grazie ai macchinari HD e alle infinite possibilità di correzione digitali, è di per sé più forte e autonoma rispetto alle mie prime opere. Il coinvolgimento emotivo, e con esso la capacità di significazione che prima trovavo fortissima nella musica, adesso è quasi a totale appannaggio dell’immagine. In questo senso, ciò che nei miei lavori sta prendendo sempre più piede e che sempre più trovo interessante è l’utilizzo dei suoni ambientali come tappeto utile alla contestualizzazione dell’immagine.
DG: Con Il Capo, sei stato l’unico italiano a essere invitato alla sezione “Orizzonti” dell’ultima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. In seguito sei stato ospitato alla Biennale di Scultura di Carrara e lo stesso video è stato scelto per rappresentare “Cinéma du réel”, rassegna di documentari presso il Centre Pompidou. Tre realtà prestigiose che, per quanto vicine, si distinguono tra loro per finalità e pubblico di riferimento. Come hai vissuto questo riscontro in ambiti comunque diversi? Ti è capitato di dover adattare i tuoi lavori in funzione dei contesti in cui sarebbero stati presentati?
YA: Negli ultimi anni, a seconda dell’ambito in cui presentavo i miei lavori, pur ricevendo dei giudizi positivi da chi tentava una loro analisi, spesso questi erano viziati dalla considerazione che determinati lavori non fossero adeguati del tutto ai luoghi e agli ambienti in cui venivano presentati. Quando si trattava del contesto cinematografico, i miei video erano considerati troppo arty, mentre nei casi in cui si trattava di mostre o luoghi deputati alla presentazione di lavori artistici (quando ancora si usava il termine video arte), il mio linguaggio sembrava essere troppo cinematografico o narrativo. Per lungo tempo mi sono quindi sentito in bilico, come costretto a definirmi e a connotare il mio lavoro in una maniera o nell’altra, senza tuttavia, e aggiungerei per fortuna, prendere mai una decisione netta in uno o nell’altro senso. Oggi, grazie anche al riscontro e al riconoscimento avuto a Venezia come a Carrara, sono invece sempre più convinto del fatto che chi ha la possibilità di creare dei ponti tra mondi più o meno distanti tra loro, abbia il dovere di metterli in contatto e di creare delle relazioni capaci di abbattere i muri di incomunicabilità tra generi, ponendo le basi per un reale sviluppo del panorama artistico come è potuto avvenire, per esempio, tra il mondo del teatro e la performance.
DG: Pensi che questa necessità di superamento di generi spesso troppo restrittivi sia stata colta anche dalle istituzioni e da chi opera nel sistema artistico nazionale?
YA: La mia impressione è che questa necessità di superamento tra i generi sia in parte percepita anche dalle istituzioni, ma mi pare comprensibile che trovino difficile applicare queste non-categorie a un sistema di promozione e divulgazione, a loro congenito, senza ricorrere all’utilizzo di categorie o definizioni restrittive. In parte è inevitabile anche perché le definizioni e i generi sono strumenti senza i quali, muovendosi in un panorama molto ampio come quello dell’arte contemporanea di oggi, si rischierebbe probabilmente un’eccessiva dispersione di energie e di interesse. Immagino che sia ancora necessario del tempo perché questo processo si inneschi, ma sarebbe interessante riuscire a trovare dei sistemi di catalogazione e promozione alternativi, in grado magari di raccontare un lavoro e di suggestionare il pubblico in maniera meno lapidaria o sbrigativa.
DG: Quindi se ti dovessi definire, in relazione al tuo lavoro, che termine useresti?
YA: Mi definirei “artista visivo-filmmaker”. Non potrei sottrarmi comunque dall’utilizzo di un nome composto nel tentativo di fornire il senso di quello che faccio. Il mio lavoro è costruito su competenze tecniche di tipo cinematografico ma con intenzionalità, forma e conseguenze principalmente artistico-visuali. In molti casi poi il progetto di un video, che potrebbe richiedere anche alcuni anni di lavoro, diventa lo spunto, l’elemento germinativo per dare vita a diversi lavori come foto, performance o installazioni su un determinato tema. L’immagine in movimento rimane per me la formula espressiva principale, ma può funzionare sia come presupposto ad altre opere sia come summa di una serie di queste.
DG: Un elemento riscontrabile in molti dei tuoi lavori è costituito dalla presenza di un protagonista. Che funzione e quale valenza attribuisci a queste figure?
YA: Dal punto di vista della regia è indubbio che una figura predominante, una sorta di guida all’interno della scena, sia senz’altro utile a creare identificazione da parte del pubblico e quindi a sostenere meglio il filo della narrazione. Tolto l’aspetto tecnico però, quello che mi interessa e appaga maggiormente è l’indagine delle vite di queste persone al di fuori della scena. Attraverso i miei progetti riesco infatti a entrare in relazione con umanità e situazioni che altrimenti mi sarebbero precluse e per le quali sino alla fine delle riprese nutro una sorta di timore reverenziale.
DG: Da quali di queste esperienze pensi di essere stato maggiormente toccato?
YA: Che si trattasse di pastori macedoni, come quelli incontrati mentre giravo Thema Thessalonica, o di venditori ambulanti di arance, i protagonisti di aranci*mantra, ogni qualvolta mi avvicinavo a queste persone, riscontravo sempre della diffidenza e aggressività da parte loro. La fascinazione che provo per queste persone o per certe realtà distanti dalla mia esperienza rimane tuttavia lo stimolo maggiore per portare avanti il mio lavoro. L’esperienza legata alla produzione de Il Capo credo sia stata quella più forte e che mi ha maggiormente coinvolto: per un anno ho passato una settimana al mese a riprendere il lavoro dei cavatori di marmo sulle Alpi Apuane. L’inserimento è stato molto difficile, sino a quando non ho iniziato a seguire gli stessi orari di lavoro degli operai, a mangiare con loro e a rispettare le loro regole. Solo a quel punto credo di essere riuscito a stabilire un primo contatto umano con il capo della cava (l’unico ad avere potere decisionale, anche sui proprietari della cava stessa) e a dare quindi un’anima al mio lavoro. Credo infatti che oltre alla piacevolezza delle immagini e alla loro costruzione, un reale punto di forza de Il Capo sia nella percezione dell’empatia che si è instaurata tra me e il protagonista. Questo mi ha portato ad annullare sostanzialmente il mio punto di vista di regista, permettendomi quindi di amplificare e dare un nuovo respiro poetico ai pensieri e alle riflessioni quotidiane di queste persone. In fondo, credo che la soddisfazione maggiore provenga dal fatto che all’inizio di ognuno di questi lavori rischio di prendere delle botte, ma alla fine finisce sempre in lacrime di commozione per l’esperienza condivisa.