Sylvie Fleury Istituto Svizzero / Roma di

di 26 Giugno 2019

Che le scarpe italiane siano famose in tutto il mondo, è un dato di fatto. Sylvie Fleury cavalca questo luogo comune per parlare di temi a lei cari, prelevando oggetti noti e svuotandoli del loro significato. Il corpo diviene allora una presenza costante, sebbene semplicemente evocato per similitudine o metonimia. Nella mise en scene delle sue installazioni, non c’è finzione. Le buste da shopping o le scatole, pur celandoli, contengono oggetti veri che creano una relazione tangibile con il resto degli elementi. La connessione tra arte e moda non è qui analizzata come una possibilità estetica quanto piuttosto come un’esperienza cognitiva. La moda diventa lo strumento, il dispositivo utile per parlare dell’arte e non viceversa, andando ben oltre il semplice concetto di ready-made. 

Le scarpe, elemento di rito annunciato nel titolo, sono quelle appartenute all’artista e indossate durante vernissage o performance, le più stravaganti e inconsuete, inserite in un espositore che richiama piuttosto la forma di una libreria culturalmente riqualificata (Retrospective, 2008-2016). Opere realizzate appositamente per la mostra convivono con altre rappresentative della sua ricerca.

Tacchi, rossetti, piume e sagome di gambe femminili (Flag, 2019; Ash Plumes From The Iron Soul, 2010; Andre et Robert (aubergine and pearl mint), 2019; Andre et Robert (green and rainbow effect), 2019) affermano l’universo femminile con eccentrica risolutezza. Mentre toni più raccolti ispirano My Life On The Road (with Amethysts(2016), un omaggio alla scrittrice americana Gloria Steinem – femminista anni Settanta che girò con la sua moto viola (da cui la scelta della pietra) le strade d’America – ma anche un’allusione sufficientemente esplicita all’organo femminile e alle conseguenti differenze di genere.  

A fare da contraltare la passione dell’artista per i motori: nella serie Car Wash (2016), immagini al led estratte da suoi vecchi lavori video conservano la grana volutamente imperfetta dell’analogico; e in 283 Chevy e 400 Pontiac (1999), due tra i più grandi motori per macchine mai realizzati diventano oggetti scultorei. Più che una semplice provocazione sulle disuguaglianze di categoria, il feticismo nei riguardi del motore, oggetto che l’artista conosce molto bene, rappresenta una riflessione, una metafora sulla possibilità di cambiamento (forma, colore, potenza) delle abitudini della nostra vita. La cromatura esteticamente impeccabile, che potrebbe far pensare al Finish Fetish californiano, come spesso nel lavoro di Fleury, svela invece il ritocco, il trucco, il dettaglio che sabota l’apparente perfezione rovesciandone il significato.

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Marta Silvi