Beatrice Marchi Casa Masaccio Centro per l’arte contemporanea / San Giovanni Valdarno di

di 7 Novembre 2019

Ti sembra divertente? Questo il refrain che in Joker di Todd  Phillips (2019) scandisce la solitudine di Arthur Fleck, il protagonista clown-assassino-eroe. No, non è divertente, infatti la risata di Arthur è una manifestazione di pura sofferenza, come recita il biglietto che si porta appresso e mostra agli attoniti spettatori della sua ilarità. Arthur è malato, ha una specie di sindrome di Tourette al contrario: l’ansia e la paura lo fanno ridere parossisticamente. Per contrappasso, le sue battute non fanno ridere nessuno e Arthur si guadagna da vivere come clown di quart’ordine.
Cosa è divertente e cosa no? Chi lo decide? Lo stesso Joker lo domanda al suo eroe Murray Franklin – prima di metterlo a tacere per sempre con una battuta agghiacciante e un colpo di pistola – un affermato stand up comedian televisivo che si fa beffe di lui, ma lo introduce, per un attimo, nello show biz. È il sistema che decide, risponde per lui Arthur, lo stesso che stabilisce chi è malato e chi è sano e cosa è giusto e cosa è sbagliato.
La risata che, episodicamente, il clown fa scaturire è lontana dal sorriso compiaciuto e condiviso che ci fa sentire parte di un gruppo di privilegiati, culturalmente elevati. Il clown è la messa in scena del rimosso, della vergogna, di quello che non si vuole vedere in se stessi e nella propria tribù. Il numero del clown è un gesto di allontanamento, di congedo, di resa al fallimento.
Se il clown maschio è codificato dalla storia del teatro e dello spettacolo, la femmina clown non si afferma se non come genere alquanto minore, una stranezza assimilabile a fenomeni da baraccone come la donna barbuta o la donna cannone. La femmina che tenta di far ridere, sembrerebbe, in generale, un pathosformel tabù, un motivo intoccabile, neppure degno di quel timore misogino e superstizioso che circonda l’iconografia della strega. Una donna che si mette in scena, si espone al dileggio per strappare un sorriso, è un tentativo incorporato di autodeterminazione che oltraggia l’ideale femminile considerato desiderabile. È indesiderabile. Come scrive Rosi Braidotti “l’ironia è una dose sistematicamente applicata di scardinamento”.

Beatrice Marchi e le sue Amiche Loredana, Katie Fox, Susi Kulinsky e le Mafalde sono dei clown ibridi, una sottocategoria del genere clownesco se possibile ancora più negletta della versione femminile.
Loredana, possiede repulsive e magnifiche chele e la sua radiosa melodia accompagna il racconto di umilianti prove sociali (Loredana: la cameriera con le chele, 2019). Le Mafalde sono cani dagli occhi e comportamenti estremamente umani (The Mafalds, 2018 e The Escape, 2019).
L’incertezza del posizionamento assimila Loredana ai migranti che costituiscono la voce narrante nel coro Niente mi piace e l’anima tace (2019). “Noi bolle pesanti ce ne andiamo coi santi”, così recita il testo e così migrano i sans papier, le donne e gli uomini “malati di mente”, i commedianti.
Beatrice, nell’estensiva mostra curata da Rita Selvaggio presso Casa Masaccio, rende un omaggio di bellezza a questa schiera di dissidenti poco eroici, dalle spalle curve, lo sguardo basso e il sorriso tremulo. Non solo li crea e ricrea, ma costruisce per loro scene e costumi, spazi traslucidi e colorati (Loredana Bar, 2019), sensualissimi materassini frutto di un’ortopedia stramba (Alessandro Agudio e Beatrice Marchi, Tropical, 2019), maschere nere e dentate (La Dominanza, 2018) look-book preziosissimi (Dori Karbon e Beatrice Marchi, Figurini dei look per l’opening di “Le Amiche”, 2019). Genera un mondo ammaliante per chi sta fuori dal mondo, nei suoi recessi bui. Marchi fa un gesto commovente, che, come lei stessa afferma, non è il gesto pulito, conforme e perfetto del performer, ma quello magnificamente sbilenco del clown che si offre senza riserve, si lancia in aria senza la rete di protezione, arreso all’amore. Perché, in effetti, sì, “ho le chele baby, so why don’t you killa me?”

 

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Anna Franceschini