Tell me stories!
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di 12 Maggio 2020

“Tell me stories!” è una rubrica sulla scrittura, a cura di Manuela Pacella. Uno spazio in cui testi di e su diversi autori indagano la scrittura d’arte, sperimentale, interdisciplinare, creativa e non.

Hito Steyerl, The City of Broken Windows, 2018. Video a due canali (HD, colore, sonoro). Broken Windows: 6′ 40” e Unbroken Windows: 10′. Courtesy l’artista; Andrew Kreps Gallery, New York e Esther Schipper, Berlino. © VG Bild-Kunst, Bonn, 2020. Film still © Hito Steyerl.

To Tell a Story… è il titolo dell’episodio dell’8 febbraio 1983 di VOICES (serie TV, 1982, 1983, 1985, 1987), diretto da Mike Lloyd. Invitati a riflettere sullo storytelling sono due ospiti illustri: John Berger e Susan Sontag. Come sottolinea in apertura Berger, entrambi hanno lavorato a film, pubblicato molti saggi ed entrambi, appunto, scrivono fiction, romanzi e racconti.
Nella prima parte del programma Sontag osserva che, all’interno della stessa nozione di storytelling, sia racchiusa un’ambiguità, nel senso che è un’attività che va in due direzioni: da una parte è connessa all’idea della verità e dall’altra a quella dell’invenzione, dell’immaginazione, delle bugie. “Don’t tell me stories!” significa, appunto, “Non raccontarmi favole” (“Non raccontar frottole! mi vien da dire) implicando in ‘stories’ un analogo di ‘lies’, ossia ‘bugie’.
 All’inizio della parte terza, invece, Berger asserisce qualcosa di molto vero e sentito. Sembra quasi una confessione e fa eco nelle menti solitarie di ciascuno scrittore:
“La lotta per me consiste sempre – sia se scrivo un saggio o una storia – nel fatto che c’è un modello di qualcosa che ho visto, ho percepito. Può essere nella vita reale, in un film, in un dipinto o in un’opera letteraria. Qualcosa che sento sia per definizione indicibile […] E la lotta è sempre quella di cercare di ricrearlo a parole. La lotta è una questione di precisione affinché finalmente le parole siano il più possibile vicine (non lo sono mai abbastanza) a quel modello che non è verbale, che ho sentito, intuito, percepito”. Sontag risponde, al di là della condivisione della pratica della scrittura come lotta e come attività dolorosa, con un deciso: “Per me non è la stessa cosa; mi sembra che siano attività completamente diverse. In realtà ho davvero l’impressione che per farlo devo togliermi una testa e indossarne un’altra”.

Quando ho visto l’episodio televisivo su YouTube con molta, quasi preoccupante, partecipazione (come se fossi lì a dar ragione all’uno e all’altro) di fronte a questa asserzione di Sontag rimango pietrificata. In un’intervista di Jonathan Cott tradotta da Paolo Dilonardo per il Saggiatore (2016) Sontag dice: “Ho sempre pensato che saggi e narrativa trattassero temi molto diversi, e ho provato una certa irritazione nel farmi carico di quello che consideravo il doppio peso di due attività che consideravo diverse. Solo di recente, poiché si è imposto alla mia attenzione, ho compreso quanto saggi e narrativa condividano gli stessi temi, enuncino lo stesso genere di asserzioni o di non asserzioni. Mi fa quasi paura quanto siano omogenei”¹. Quest’intervista, frutto di lunghe conversazioni tra Sontag e Cott, tra Parigi e New York, venne pubblicata parzialmente su Rolling Stone nel 1978 e, nella versione integrale, solo nel 2013. Qualcosa non torna nelle date, quindi: Sontag asserisce esattamente l’opposto nel 1983 durante il dialogo televisivo con Berger citato in apertura a questo testo. In realtà mi rendo conto ora che proprio la non-linearità delle date delle due fonti citate mi dà quasi il diritto di asserire che la questione non solo non è semplice, ma in qualche modo è giusto che rimanga ambigua.

Quindi, nell’irrefrenabile e infantile desiderio di voler leggere storie, di voler immaginare che siano favole, di voler pretendere allo stesso tempo che siano verità, abbiamo deciso che inizieremo a raccontarvene qualcuna. Abbiamo inoltre il grande vantaggio che ‘storia’ in italiano ingloba in sé diversi significati tra cui sia un racconto inventato, sia la Storia – quella di una ricostruzione critica dei fatti, che poi sappiamo bene quanto questa non riporti tutte le altre narrazioni parallele, sotterranee, orali, o sepolte.

È qui, in questo luogo, con l’incredibile e istintivo appoggio di Flash Art ed Eleonora Milani, con il sostegno imprescindibile di Cecilia Canziani e di Valerio Mannucci – attraverso immissioni di idee, contenuti e la capacità di chiarire i molti dubbi che si insinuano tra le mie parole – che finalmente prende vita questa rubrica che interroga l’“oggetto scrittura”.
Una particolare storia, quella della critica d’arte (e non solo) e dei suoi sublimi sconfinamenti in altri generi narrativi. Creatività e critica, narrativa e saggistica, non possono esistere esclusivamente su due binari paralleli; possono essere intrecciate, alternate, convivere tanto da liberarci da un certo accademismo che a volte è così forte da determinare un’autocritica (piuttosto insensata) anche solo perché ci si “permette” – come sto facendo io ora – di scrivere in prima persona.

In fondo sappiamo che nessun testo è realmente originale e come tutti, anche quelli volutamente basati su appropriazioni, sono guidati da scelte autoriali. Anche le scritture più accademiche, riportando dotte citazioni, non sono altro che arditi e abili montaggi creati per avvalorare, grazie alle parole altrui, una propria tesi in cui però la sequenza delle citazioni, il come legarle e il ritmo che si intende dare, rimane sempre e comunque originale e specchio di uno specifico pensiero. 
Chi queste specificità le ha interrogate e le ha assorbite al punto di insegnarle in cattedre universitarie (veri maestri nel portare in seno alle istituzioni esperimenti a volte anche estremi) verrà qui studiato, in parte tradotto per il pubblico italiano, e reso in qualche modo emblematico di ciò di cui si vuole discutere. Attraverso contributi mensili dunque, verranno “raccontate” da diverse firme le storie di autori che rivestono un ruolo fondamentale nella “scrittura interdisciplinare”, per citare l’ottima definizione che ne dà Maria Fusco.

Proprio lei, riguardo la motivazione per cui inizialmente utilizzava la definizione di “Art Writing” (oggi invece “Interdisciplinary Writing”, più ampia e adatta alla sua pratica di insegnamento e scrittura) in un’intervista con Chris Sharratt afferma: “Il valore della definizione di Art Writing ai tempi del MFA alla Goldsmiths [che ha diretto dal 2009 al 2013] era un po’ come suonare un campanello d’allarme e dire alla gente: ‘Lo stiamo facendo qui! Volete essere coinvolti? Vogliamo farlo insieme? Insieme potremmo renderlo migliore’”².
Ecco, stiamo provando a farlo oggi in Italia, attraverso Flash Art: volete essere coinvolti?

P.S. Non avrei voluto usare un titolo in inglese ma, ammettiamolo, per i titoli funziona meglio e poi ero troppo ispirata da Berger e Sontag. Abbiamo volutamente deciso di non applicare la regola del Title Capitalization al titolo della rubrica. Quindi, non fate i noiosi (io sarei la prima a dirlo!), è voluto.
Buona lettura!

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