La Biennale Gherdëina, a cura di Adam Budak, ha potuto sfruttare la sua stessa specificità tematica e geografica per confermare quest’anno la settima edizione. La rassegna della Val Gardena, infatti, è da sempre incentrata sul rapporto tra l’uomo e la natura, come forse è facile aspettarsi dal luogo che la ospita: se il cuore della mostra è allestito nel centro storico di Ortisei, alcune opere satellite sono immerse nella potenza del paesaggio dolomitico, in spazi ampi e aperti. Una tematica che quest’anno assume una drammaticità particolarmente attuale: il cosiddetto ‘salto di specie’ tra animale e uomo all’origine della pandemia che ci ha travolti, ha costretto anche i più distratti a una riflessione profonda sulla nostra relazione con gli ecosistemi che ci circondano.
La natura che ospita la Biennale Gherdëina, del resto, non è solo quella spettacolare delle Dolomiti: per la terza edizione del suo mandato, Budak si concentra prevalentemente sul contesto naturale in senso culturale ed etnico. Il riferimento è alla tradizione ladina locale, ma anche – più in generale – alle tematiche identitarie protagoniste del dibattito politico attuale. Il ‘respiro’ a cui si allude nel titolo è probabilmente la parola più importante di questi ultimi mesi (non riescono a respirare le migliaia di persone colpite in forma acuta dal virus, non riusciva a respirare George Floyd, afroamericano ucciso da quattro agenti di Polizia a Minneapolis lo scorso 25 maggio). Allo stesso modo, le modalità del ‘fare mondi’ – che riecheggiano la Biennale di Venezia del 2009 di Daniel Birnbaum –, sono da intendersi appunto nel senso di ‘creare contesti’, relazionarsi alla natura circostante nelle sue declinazioni etiche e sistemiche.
Il cuore fisico della Biennale, come si accennava, è la mostra collettiva allestita all’interno della Sala Trenker, nel centro di Ortisei. Luminaria (2020), installazione site-specific di Marinella Senatore accoglie i visitatori all’ingresso: l’artista, cui si deve anche la composizione di una speciale colonna sonora cantata dal coro del paese, continua la propria ricerca sul rapporto tra individuo e tradizioni popolari (l’esempio più recente, e più chiacchierato, è il suo spettacolare contributo alla sfilata di Maria Grazia Chiuri per Dior a Lecce lo scorso luglio), e ‘scrive’ con le luci colorate tipiche del Sud Italia un verso di un autore altoatesino. All’interno della sala, un allestimento ridondante, ma miracolosamente equilibrato, si apre con una Gabbia di Paolo Icaro. L’invito è quello di attraversare attivamente le sbarre dell’installazione passando alla parte opposta: un rimando, secondo il curatore, alla gabbia domestica a cui milioni di persone sono state costrette nei mesi scorsi. Il lavoro inoltre si ricollega al lungo filone delle opere installative che richiedono l’intervento attivo dello spettatore, a volte collettivamente: ne fa parte anche un lavoro di Ingrid Hora installato nella piazza davanti alla Sala, The Great Leap Forward (2011).
Interpretano in maniera più letterale il tema etnico e antropologico artisti come Agnieszka Brzeżańska, Paloma Varga Weisz, Tonico Lemos Auade senza dubbio Paulina
Ołowska. Di quest’ultima, che ha presentato una versione site-specific della performance Slavic Goddesses and the Ushers (2018) sul monte Pilat nella serata inaugurale, si possono vedere qui una serie di abiti ispirati alla lettura dei racconti di Simone de Beauvoir The destroyed woman, dedicati alla decadenza fisica delle donne.
Al di fuori della sala, numerosi interventi si snodano per le strade del centro storico. Tra questi Petrit Halilaj & Alvaro Urbanopresenta due altoparlanti inseriti in casette per uccelli (numerosissime in Val Gardena) che riproducono il ‘rumore del sonno’ – suo, e del suo compagno Alvaro. Altrettanto ironica, e drammaticamente lungimirante, è invece la Disco for one (2020) dell’artista greca Maria Papadimitriou: quando ancora il dibattito sulla opportunità di aprire le discoteche per ragioni sanitarie era al di là dell’immaginabile, Papadimitriou omaggiava Giorgio Moroder progettando un’installazione ispirata alla disco anni Ottanta cui poteva accedere una persona soltanto, cercando di immaginare l’evoluzione dell’industria musicale dopo quegli anni di eccessi. Una risposta, diremmo oggi, assurdamente profetica. Immancabile l’intervento scultoreo di Aron Demetz, il più noto degli artisti locali: interessato a indagare il modo in cui l’uomo e la natura convivono – o entrano in conflitto – Demetz riflette su come l’intervento umano devii spesso il percorso della natura. In questo senso si può leggere la scultura in bronzo dipinta a mano, in cui due rami di albero si intrecciano come in un innesto. Al termine del paese lo storico Hotel Ladinia, in disuso da decenni, rivive come Cinema of Worldmaking: articolato progetto di Josef Dabernig, che ‘riapre’ al pubblico la pensione allestendovi interventi di altri artisti, tra cui due sale video che funzionano come vere e proprie sale cinematografiche.
Su tutto, si insinuano le Martellate (1990–2019) di Marcello Maloberti: gli slogan poetici e spiazzanti scritti a pennarello nero su fondo bianco, che Maloberti realizza da ormai trent’anni, parlano ora anche in ladino.