“Sono solo i superficiali che non giudicano dalle apparenze”, scriveva Oscar Wilde. E Alessandro Mendini certo superficiale non era, nonostante proprio alle superfici, alla magnifica ossessione del decoro quale tema autonomo di progettazione, abbia dedicato una vita, studio e lavoro in un continuo attraversamento delle discipline e dei saperi. Quell’“apparenza”, quell’ornamento tanto vituperato da Adolf Loos (“è delitto!”, tuonava) erano centrali in Mendini. No, Mendini non era superficiale, Mendini era tutto ed era altro: “Io non sono un architetto sono un drago”. Così amava rappresentarsi in un disegno del 2006: con il corpo da architetto, la testa da designer, il petto da manager, la coda da poeta e via dicendo.
Mendini poi era generoso. E ironico, e curioso. Prestava grande attenzione a progettisti e artisti, più o meno a lui vicini temporalmente, coinvolgendoli nelle riviste da lui dirette, nei suoi progetti collaborativi e relazionali – come il Mobile infinito del 1981, con Franco Raggi, Ugo La Pietra, Andrea Branzi, Sandro Chia, Enzo Cucchi e tanti altri, o le stazioni della metropolitana Salvator Rosa e Materdei di Napoli – o invitandoli alle mostre da lui curate. Come nel caso di Andrea Sala (Como, 1976), in “Quali Cose Siamo” in Triennale Milano nel 2010 con la sua personale reinterpretazione del 2009 dell’iconico Cicognino di Franco Albini invaso da pattern di sapore anni Ottanta. Ancora una volta il decoro, insomma. Quali Cose Siamo è stato il punto saldo della poetica di Mendini: un “caleidoscopio emozionale” attraverso il quale guardare le “cose”, quelle alte quanto quelle basse, con la stessa metodica attenzione. E alle cose, alla loro pelle, al banale – altro tema cardine per Mendini – guarda anche Andrea Sala, da sempre pronto a intercettare movimenti e sommovimenti di design e architettura per innestarli nella sua arte. Il ritrovarsi di Mendini e Sala nella mostra “Lucido, ancora più lucido”, alla Galleria Schiavo Zoppelli di Milano, realizzata in collaborazione con la Galleria Luisa delle Piane, rappresenta allora un felice esempio di affinità elettive progettuali messe in scena in un raffinato dialogo.
Di Mendini sono proposti Qfwfq, Ayl e Luna & Sole, tre mobili i cui nomi derivano dai protagonisti della Cosmicomica di Italo Calvino dal titolo Senza Colori. Ma l’architetto e designer milanese ribalta il punto di vista e inserisce il colore e il bianco e nero. Impiega i legni Pointillisme COL e Pointillisme B/N, che Atelier Mendini (con Alex Mocika) ha sviluppato come riedizione del primo legno da lui concepito per ALPI nel 1991. È quasi un ritorno alla seminale e famigerata Poltrona di Proust (1978), pulviscolare smaterializzazione di una seduta in un dipinto e viceversa, citazione di citazione di citazione, dal barocchetto kitsch di certa Brianza medio borghese al Puntinismo di Signac all’amato autore della Recherche. Sala invece astrae il quotidiano in sculture simil-caloriferi dai titoli di gozzaniana e familiare memoria: Il salotto, La cameretta, La mansarda, Il bagno… Come Mendini, nelle sue opere si concentra sulle finiture e i trattamenti – materici e pittorici – in bilico tra produzione industriale e mano artigiana. E così, come ricorda Alessandro Rabottini nel testo scritto per l’occasione, riecheggiano quei concetti di “design pittorico”, di “texture”, di “make up”, di “cosmesi”, teorizzati da Mendini ed esplorati da Sala. I totem scultorei di Mendini fanno da contraltare al fragile paesaggio domestico e minimale di Sala. Due approcci diversi, seppur complementari, per raccontare, e abitare – tra funzione ed emozione – lo spazio della casa. Ma restando sulla superficie. Per arrivare, in realtà, alla profondità delle cose.