Leggerezza, design e colore in Hermès. Una conversazione con Charlotte Macaux-Perelman e Alexis Fabry di

di 19 Ottobre 2022

Gea Politi: Vorrei partire dal tema che avete scelto: la leggerezza. In un momento storico come quello che stiamo vivendo, avete scelto un tema che non definirei propriamente leggero…
Charlotte Macaux-Perelman: A dire il vero, è un po’ come Hermès. Non è la prima cosa che viene in mente quando si parla del brand non si associa Hermès alla leggerezza, che fa parte del nostro lavoro ma non è visibile. Quando abbiamo cominciato, la nostra idea di Hermès era di qualcosa di durevole. Ci dicevamo “perché qualcosa duri nel tempo deve avere un certo spessore, una certa robustezza”. Quando siamo arrivati, trovavamo tutto molto solido e rigoroso, perciò una delle nostre sfide era realizzare oggetti leggeri. Forse anche perché sono più ergonomici, più in contatto con il corpo, dotati di una certa sensualità.
La leggerezza è quindi qualcosa che fa parte del nostro lavoro ma che non era emersa finora, e che ovviamente caratterizza anche il tessile. Abbiamo quindi voluto creare un ambiente luminoso e soprattutto con oggetti leggeri.

Cristiano Seganfreddo: Non so se conoscete Italo Calvino, un grande scrittore italiano che ha scritto Lezioni Americane, in cui uno dei temi è la leggerezza come insegnamento per il nuovo millennio. È un libro su delle lezioni che l’autore doveva tenere negli Stati Uniti, insegnamenti per il nuovo millennio. È molto bello ed è fantastico il modo in cui l’autore parla del concetto di leggerezza e del bisogno che ne abbiamo nel mondo.
CMP: Ci sono diverse forme di leggerezza, come il peso in senso letterale. C’è anche una forma di leggerezza metaforica, come ad esempio i colori utilizzati, la grafica. Nel nostro lavoro c’è questa leggerezza un po’ onirica, visiva, diciamo “diversa”.
Alexis Fabry: Per noi, la sfida principale è rappresentata dalla leggerezza in senso letterale, specialmente per quel che riguarda soggetti come i mobili che sono intrinsecamente robusti, pesanti. Per noi la sfida quotidiana consiste quindi nel rimuovere quella pesantezza al fine di renderli leggeri. Ogni anno ci sono degli elementi cardine che decidiamo di far emergere in accordo con il team di comunicazione della maison, e quest’anno è stata la leggerezza.

CS: Immagino ci siano anche degli “statement” stabili nel discorso che fate per Hermès. Forse, come nel caso delle Lezioni Americane, la leggerezza è una delle basi della vostra poetica, un elemento stabile, non stagionale.
AF: È così. Inoltre, la leggerezza che per noi è meno presente in Hermès in generale è proprio quella in senso letterale. Senza dubbio quella che cerchiamo di perseguire è piuttosto quella onirica, quella più metaforica.

CS: Certamente, le qualità poetiche sono facilmente descrivibili in un comunicato stampa, ad esempio, ma sono difficili da realizzare.
CMP: Esatto, è un qualcosa che si può fare sempre. Per di più è in parte in contraddizione con i nostri valori poiché desideriamo iscriverci in un tempo durevole, di cose fatte con grande maestria e dettaglio. E questo spesso è in contraddizione con la leggerezza.
Quando abbiamo iniziato a realizzare la lampada Coulisse di Tomas Alonso, ci siamo detti “sarà troppo leggera, si romperà, è di carta”. Ma alla fine è l’oggetto più resistente e solido che abbiamo mai realizzato. Ecco la contraddizione tra immagine e oggetto.
Il lavoro per raggiungere la leggerezza è caratterizzato da tanto tecnicismo. In questo caso si tratta di una struttura con elementi in bambù, con delle sezioni di almeno cinque millimetri che rendono l’oggetto estremamente solido, e delle giunzioni robuste non incollate ma ad incastro. Quest’anno abbiamo lavorato con la carta washi perché è un tessuto molto resistente, può cadere a terra, non si rompe, vola ed è leggero.

CS: Tutta la storia dell’umanità è connotata dal combattere la pesantezza nel tentativo di raggiungere la leggerezza, e la tecnologia è leggerezza. Tutto lo sviluppo tecnologico mira al togliere peso e rendere più forte e stabile la leggerezza, a rendere l’oggetto finale più leggero.
CMP: È vero, anche se ci sono persone che aspirano a vedere la leggerezza in un mondo tecnologico. Per noi si tratta piuttosto di tecno-artigianato, rimaniamo nella fabbricazione artigianale, sulle cose fatte a mano ma in modo tecnologico. Il segreto è quindi trovare i partner giusti, la buona squadra per realizzare questo tecno-artigianato. È ciò che volevamo esplorare anche con la panca Karumi. In quel caso è stato importante trovare la persona che riuscisse a mantenere sezioni molto esili nonostante la grande portata, senza dettagli. Tutto è nascosto: la tecnologia è nascosta al servizio dell’artigianato.

CS: Molto spesso si fa confusione tra tecnologia e progresso o il digitale. Talvolta la tecnologia sembra progresso, mentre la tecnologia è la capacità dell’uomo di creare qualcosa, l’arte di creare qualcosa e di saperlo fare bene. L’artigianato ne rappresenta l’espressione più profonda e avanzata. Si può andare su Marte e fare una lampada ma quell’atto sarà sempre caratterizzato dalla tecnologia, non c’è solo la tecnologia digitale. Quello che trovo interessante nel vostro lavoro è la capacità di giocare tra lusso, tecnologia e leggerezza. Sembra quasi in contrasto con l’idea standard di lusso, quanto più una rielaborazione. Un lusso che si sta spostando.
AF: Ciò a cui teniamo di più è l’idea di precisione. Il tema del lusso è un postulato che non compare mai nel nostro lavoro. Non so se sia un bene o un male, ma l’unica cosa che abbiamo in mente è la precisione.
CMP: Prestiamo molta attenzione a tutti gli aspetti. Tutto il processo richiede molto rigore e lavoro. Non saprei se nel complesso si tratta di lusso, direi piuttosto precisione ed equilibrio.

AF: Nella precisione talvolta c’è dell’irregolarità. Da Hermès questo caratterizza ciò che è ammissibile, un’esigenza in termini di qualità. Seguiamo un principio qualitativo che è molto elevato. Da quando siamo arrivati, non abbiamo smesso di giocare con questo aspetto, ovvero: qual è il grado di irregolarità, l’elemento fortuito ammissibile? Fino a che punto, ad esempio, possiamo spingerci nel modificare oggetti in pelle, in genere molto rigorosi? Prendiamo una superficie di pelle con tagli e cuciture, lì abbiamo aggiunto delle grafiche, dei disegni a mano. Seguiamo un’idea di arte-comfort, la linea non deve essere assolutamente perfetta, disegnata con un righello.
CMP: Perciò chiediamo all’artigiano di disegnarla a mano e soprattutto senza righello. Amiamo questa imperfezione, questo gesto umano lo accogliamo in tutti i nostri oggetti, ed è ricorrente.

CS: Sembra un atteggiamento anche un po’ zen, un allineamento tra la mano e lo spirito.
CMP: Esattamente, si tratta di accettare quelle che chiamiamo imperfezioni. D’altra parte, ci sono naturalmente delle imperfezioni che non accettiamo, perché non derivano dalla gestualità dell’uomo.
AF: C’è una sorta di poetica in questo.

CS: Nella poesia le parole vengono spostate, decomposte, si creano dei rapporti nuovi tra loro. Penso che voi facciate lo stesso con gli oggetti e le materie classiche che usate. Ne spostate il senso e la modalità per creare qualcosa di nuovo pur rimanendo all’interno di un processo classico.
CMP: Nel nostro lavoro siamo sempre combattuti tra il patrimonio culturale, il nostro presente e il futuro. Inconsciamente abbiamo sempre attinto al patrimonio culturale ma cerchiamo di creare oggetti contemporanei e naturalmente speriamo che durino. Materialmente dureranno nel tempo, ma la domanda è se la gente li vorrà ancora tra qualche anno. Questa è la grande sfida: “l’oggetto durerà nel tempo? Continuerà a essere desiderabile?”

GP: In Hermès si può rintracciare un concetto di durabilità e bellezza che perdura nel tempo, per niente effimero.
CMP: Proprio così. La domanda è appunto se ne avremo ancora voglia. Naturalmente, non si può rispondere a questo. Ciò che desideriamo e a cui aspiriamo è che rimangano attuali nel tempo.
AF: La durabilità è un qualcosa che non si può governare, non se ne può postulare l’idea. Possiamo realizzare un oggetto robusto con tutte le qualità per durare, ma lo desidereremo ancora domani? Non si può ipotizzare.

CS: La durabilità è più uno “state of mind”. Tutto ciò che è umano è necessariamente effimero, sia che io produca una cosa di marmo o di carta. Ciò che fa la differenza nel vostro lavoro è l’approccio.
CMP: Sì, guarda i paravento giapponesi, ci sono da sempre, da secoli. Quindi la leggerezza non è in contraddizione con la durabilità. Ed è anche questo che desideriamo esprimere: un oggetto leggero non è necessariamente durevole o effimero.

CS: Avete fatto delle grandi lampade cinesi di carta che ricordano delle cisterne industriali. È un altro elemento di quasi contraddizione.
CMP: Esatto, è un richiamo alle torri idriche in cemento, all’architettura brutalista che conosciamo tramite le nostre campagne, un’architettura industriale che comunque ha un aspetto di leggerezza con le sue strutture metalliche.
AF: Abbiamo recentemente lavorato con Tomas Alonso. Qualche anno fa un giornalista gli ha chiesto cosa fosse per lui un oggetto Hermès. La sua definizione, al contempo semplice e ambiziosa, è stata molto precisa: “un oggetto Hermès è un oggetto ben fatto”.

GP: Da dove partite? Un’idea, una conversazione tra voi due, un libro?
CMP: Un po’ di tutto questo, è un insieme di cose. Ogni oggetto ha la sua storia ma certamente può derivare da una conversazione, dal desiderio di collaborare con qualcuno. Direi anche tanti libri ma sono sempre cose slegate tra loro. Spesso ci viene chiesto chi sono le persone intorno a noi che ci ispirano ma la realtà è che quelle persone le cerchiamo lontano nel tempo, geograficamente, in altri paesi, in altre culture, nei viaggi. Penso che ci sia un intero universo a ispirarci che è lontano dalla nostra vita quotidiana ed è quello da cui attingiamo. Inoltre parliamo molto dei nostri desideri.
AF: Guardiamo anche a quello che abbiamo fatto prima. Ad esempio l’idea della leggerezza era già fonte di ispirazione dell’installazione dello scorso anno, quando abbiamo fatto qualcosa con una forte potenza arcaica e così ci siamo detti che quest’anno avremmo voluto esprimere qualcos’altro. Spesso ciò che facciamo tiene conto di ciò che abbiamo fatto precedentemente.
CMP: È una sovrapposizione di cose diverse, c’è il lato esplorativo di diversi materiali, diverse tecniche. Da Hermès, facciamo costantemente ricerca, esploriamo i materiali, il know-how, il lavoro artigianale.

GP: Qual è la parte più divertente per voi, lavorare con gli artigiani, concepire il progetto iniziale… Qual è la parte più emozionante?
CMP: L’inizio è fantastico perché tutto è possibile, non ci proibiamo nulla. In ogni caso, è sempre un lavoro di squadra, che sia con un architetto o un designer esterno, con il nostro team, con gli artigiani a noi vicini o lontani. Quello che importa è il risultato.
AF: È come quando riesci in qualcosa per cui ti sentivi destinato a fallire, come quando nella vita superi qualcosa di insormontabile. Ci sono cose che accadono molto naturalmente e che sono meravigliose, ma forse ci danno meno piacere di quelle che ci sono costate molta fatica.

CS: In passato in Italia, nei paesi o nelle comunità si diceva che se qualcosa era fatto bene allora era fatto “a regola d’arte”, e quello era il modo universale per verificare se qualcosa era fatto bene. Era come una garanzia per la comunità. Oggi manca la consapevolezza stessa di cosa voglia dire e la gente non sa più riconoscerlo. E uno dei problemi attuali è l’artigianato. Cinquant’anni fa, fare una buona struttura era abbastanza normale, avremmo potuto chiamare a Milano cento falegnami e l’avrebbero fatta a regola d’arte. Oggi invece è molto difficile trovare un carpentiere, un falegname, che sappia fare il proprio lavoro seguendo i dettami della tradizione. Qual è quindi la vostra sfida nel fare le cose a regola d’arte in un contesto in cui non viene più trasmessa quella capacità?
CMP: Ci si è illusi che la tecnologia odierna potesse sostituire quell’aspetto.
AF: Questo deriva dalle avanguardie. Quando Picasso prendeva in giro i pittori della sua generazione dicendo, ad esempio, che le loro opere non erano fatte a mano, lo faceva perché riteneva che in fondo ci fosse qualcosa di superiore alla tecnica manuale. Penso che le avanguardie all’inizio del Ventesimo secolo abbiano offuscato tutto ciò che era tradizionale. Oggi assistiamo invece a un ritorno, stranamente.

CS: In Italia e in Francia mancano le persone in grado di fare determinati lavori. E questo aspetto rappresenta una grossa problematica per la produzione.
CMP: C’è un generale ritorno alla tradizione, da parte di tutti. In Italia ci sono sempre bacini di artigiani che conservano l’arte del mestiere. In Francia da questo punto di vista forse abbiamo voluto andare un po’ troppo veloci ma abbiamo conservato il midollino, ad esempio. Ci vogliono anni di allenamento per imparare a fare una cesta di vimini ed è molto complicato. Ecco perché è costoso, fare un cestino richiede molto lavoro. C’è solo una persona per volta che lo può fare perché l’intreccio deve essere lo stesso dall’inizio alla fine, gli intrecci adiacenti devono essere eseguiti allo stesso modo. Sono dettagli che non si notano ma che sono al centro delle nostre preoccupazioni. Per questo ci siamo detti che per noi il lusso è ciò che non si vede. Da Hermès, siamo consapevoli del tempo che dedichiamo a un dettaglio nonostante sia impercettibile.
AF: C’è forse un lato un po’ ossessivo in questo. Ricordo ad esempio di aver visitato una mostra in Giappone in cui erano esposti otto secoli di storia del raku, eppure si trattava esattamente della stessa ciotola. In questi casi ci rendiamo conto che c’è un’ossessione per la modernità, il progresso, una perversione, ma dall’altra parte vi è anche l’estrema stabilità, l’immobilità Questi aspetti sono presenti anche nel nostro lavoro. Quindi bisogna ricercare il giusto equilibrio tra i due.

CS: Qual è il vostro rapporto con l’arte contemporanea? Rappresenta una forma di ispirazione per voi? Usate delle ispirazioni visive come moodboard o cose così?
CMP: In un certo senso, ma non aspiriamo a fare oggetti artistici. Realizziamo oggetti visivi, e ci proibiamo di dire che è arte. Parliamo di funzione, vogliamo rimanere umili. Ma l’arte contemporanea ci interessa, senza dubbio.
AF: Direi piuttosto che ci interessiamo agli artisti contemporanei più che all’arte contemporanea, perché in definitiva quest’ultima designa qualcosa di molto specifico che peraltro è forse anche in via di dissoluzione. A noi interessa la creazione contemporanea in senso ampio. Adottando quindi una definizione molto vasta, ci interessiamo a tutto ciò che il nostro intelletto riesce a cogliere.
Penso inoltre che la nostra generazione in Francia sia stata quella che più si è confrontata con l’arte contemporanea, con l’extra-occidentale: abbiamo letto la letteratura straniera prima di leggere quella francese, ci siamo sempre interessati a queste cose. La nostra generazione è cresciuta così. Questo approccio ci ha portato a guardare orizzonti lontani, così come i confini del Nord Europa, dell’Africa, dell’America Latina. Anche questa è un po’ un’ossessione.

GP: Sei anche curatore di fotografia in America Latina, è molto interessante. Ti concentri su periodi specifici?
AF: Direi a partire dal XX secolo. O meglio dire dal moderno fino ad oggi. È un campo molto ampio ma è ciò che mi interessa.

CS: Potremmo definire i vostri oggetti design o trovate che il termine non sia corretto per il vostro lavoro?
CMP: Ci piacerebbe poterli definire tali.
AF: Forse la nostra tendenza è quella di ampliare la definizione di design includendo anche il tessile, che per noi appartiene al design. Oggi si tratta di un’opinione largamente condivisa, ma è qualcosa che dieci anni fa era oggetto di discussione. Quindi non ci dispiace affatto essere equiparati al design.
CMP: Troviamo che Milano abbia un ruolo militante in questo, al Salone del Mobile il tessile è molto presente. Ma non è necessariamente ciò a cui si pensa quando si parla di design, si pensa ancora principalmente ai mobili, non ai tessuti. Desideriamo mostrare un equilibrio nella collezione, speriamo che sia design e pensiamo che lo sia ma ci iscriviamo nel campo del tessile più che in quello del mobile. Per quel che riguarda il tessile, oggi è al centro del settore moda, ci sono molti artisti tessili contemporanei. Probabilmente non è stato visto come design fino ad ora.

CS: Il design contemporaneo è sempre più pezzo unico e meno design. Se andiamo a vedere tutte le avanguardie, tutti i giovani artisti, non parliamo più di design.
CMP: Gli italiani in effetti creano design, passatemi il termine, commerciale, ovvero non pezzi unici ma prodotti.

CS: Sì, è come per la moda, il prêt-à-porter è italiano e la couture è francese. Possiamo dire che le cose sono riproducibili a partire da un disegno.
AF: Inoltre il mercato e le case d’asta hanno creato una sorta di sovrapposizione tra design e arte contemporanea, hanno accorciato il confine tra i due rendendolo meno netto e in seguito si è stabilito che un pezzo di design per arrivare ad avere un certo prezzo deve essere qualcosa di più, qualcosa che va oltre la sua funzione.

CS: Il sistema del design è più sul contract, i numeri vengono fatti dal contract. Adesso invece c’è una parte del design contemporaneo, più di ricerca, con una spinta verso l’arte contemporanea, verso la galleria.
AF: Prendiamo per esempio il MoMA. Attualmente il museo ha mischiato tutto ma in passato, quando si visitava la parte di design, c’era la sezione sulla sua storia e quella sul design contemporaneo. In quest’ultima, non c’era nessun pezzo che potesse assumere una funzione, non c’erano sedie né tavoli. Era come se il design si fosse fermato agli anni Settanta, doveva essere storicista e se non lo era, non era design, era qualcosa che diventava quasi arte contemporanea. Il che è strano.

CS: Per questo volevo domandarvi una cosa, in cui forse si può rintracciare in parte anche una contraddizione. Non abbiamo bisogno di un’altra sedia, un altro tavolo, un’altra giacca… Qual è il vostro approccio, adesso che il design si sta spostando sempre più sui grandi temi ambientali, sociali, sul loro impatto, sul geodesign? Qual è la vostra relazione con queste tematiche?
GP: La durabilità è già di per sé una questione sociale, così come il rapporto con artigiani e prodotti.
CMP: È così. Ad ogni modo, rimaniamo focalizzati sulla funzione. Molto spesso ci viene detto che i nostri oggetti sono opere d’arte e anche il prezzo contribuisce a quell’idea. È vero che spesso si tratta di pezzi abbastanza cari e si ha l’impressione che siano unici ma cerchiamo sempre di mantenere il nostro focus sulla funzione, rimanendo umili. Detto questo, indubbiamente non sono oggetti accessibili a tutti.

CS: Un aspetto che mi interessa è legato al colore: in molti casi, l’approccio di una cosa costosa toglie colore e questo può divenire un problema, può divenire un elemento fastidioso. Invece nel vostro lavoro c’è anche molto colore, è una collezione che ha una gamma molto vasta, per esempio i colori delle terre, colori contrastanti, patterns. I colori presenti non sono nuances o appartenenti alla stessa gamma cromatica. Questo è molto interessante soprattutto in rapporto a un immaginario con una tavolozza di colori molto stretta, molto per bene, molto pastellata. Trovo interessante constatare che c’è un lavoro anche su questo.
AF: Quello che dici è verissimo. C’è un grande desiderio di non colore nelle arti decorative. Ci rendiamo conto che per le persone l’oggetto più democratico è sempre quello che ha meno colore.
CMP: Penso al beige. A me personalmente piace molto ma è un non compromesso, rappresenta un non colore per noi. Non so se abbiamo una tavolozza strutturata a cui attingiamo ma ultimamente ne abbiamo senz’altro una che ci piace. E ci piace utilizzarla sia per gli elementi in pelle che per i tessuti. Fino ad ora siamo stati un po’ timidi nell’uso del colore, ci concedevamo dei tessuti molto colorati ma non per gli oggetti e i mobili. Proprio realizzando la lampada Coulisse di Tomas Alonso, abbiamo deciso di includere del rosa o del giallo fluorescente. Ci siamo quindi concessi una dimensione decorativa lavorando sulla presenza del colore e della grafica. Ed è come per i piccoli accessori in pelle, c’è una forma di radicalità nella loro lavorazione, vi è un semplice elemento in pelle ritagliato. A un certo punto, abbiamo pensato di aggiungere un motivo molto semplice, dipinto a mano. Questo è il tipo di lavoro grafico che abbiamo messo in atto e che è anche quello che connota i nostri plaid.

CS: Penso che ci sia una grande differenza estetica tra l’Italia e la Francia, l’Italia è il paese del design rigoroso mentre la Francia è un paese che ha più…
CMP: Al contempo però voi avete avuto il Gruppo Memphis.

CS: Sì, ma Memphis è stato un momento brillante nella storia del design italiano, come una gemma, una nicchia. Gli italiani però si concentrano in genere più sul singolo oggetto e non riescono a catturare la complessità dello spazio, mentre i francesi sono più abili nella decorazione. Gli interni delle case francesi sono più belli di quelli italiani perché questi ultimi tendono ad avere pezzi magnifici ma non hanno la capacità di creare l’atmosfera. Se si vuole produrre qualcosa in Italia è impossibile pensare di farlo in arancione, con l’arancione tipico di Hermès perché ti diranno “Arancione?! Meglio grigio o nero”.
CMP: È vero che quando ci viene richiesto un grigio, ci viene fatta la precisazione: “Non vogliamo un grigio Armani”.
AF: Penso che questo si aggiunga al fatto che Hermès è una maison di tradizione protestante e non vi sia alcun complesso nell’uso del colore. Il nucleo originario era estremamente rigoroso, il rigore arbitrava e lo fa tuttora. Quando ero bambino, negli anni Settanta, ricordo che i miei genitori avevano degli oggetti di Hermès e non erano particolarmente colorati, erano per lo più di colore rosso. In quegli anni il colore è stato sdoganato e probabilmente, lo si è fatto senza problemi proprio grazie alla mediazione della tradizione protestante.
GP: Molto bello, mi piace. Concludiamo così, con Hermès protestante!