Riapre a Roma il Museo delle Civiltà con un nuovo allestimento e percorso museale

27 Ottobre 2022

Il Museo delle Civiltà conserva la più ampia e articolata collezione preistorica italiana, composta da oltre 150.000 reperti provenienti da siti archeologici italiani e internazionali, lungo un arco cronologico che si estende dalle più antiche fasi dell’età della pietra fino alle prime forme di scrittura. Nel nuovo percorso saranno esposti i reperti delle collezioni del Museo più conosciuti dal pubblico, insieme a reperti raramente o mai espositi: l’originale del cranio neandertaliano Guattari 1 dalla Grotta Guattari Circeo; le tre Veneri dai siti Savignano, Lago Trasimeno e La Marmotta; le piroghe recuperate dal fondo del lago di Bracciano, insieme a centinaia di reperti dal villaggio neolitico de La Marmotta; la necropoli e l’abitato eneolitico di Gricignano d’Aversa; la cosiddetta Tomba della Vedova, i materiali del sito di Polada e il “ripostiglio” di Coste del Marano; un “bronzetto” di guerriero e le spade rituali della cultura nuragica. Conclude il percorso espositivo la Fibula Prenestina in oro, su cui possiamo leggere uno dei più antichi esempi di scrittura latina.

La collezione si è formata attraverso donazioni, acquisti, scambi e ricerche sul campo a partire dalla fondazione nel 1875 presso il Collegio Romano del Regio Museo Preistorico Etnografico. Il primo nucleo di oggetti proviene dalle attività di studio e ricerca di Luigi Pigorini, fondatore e direttore del museo con la finalità di fornire un’impostazione scientifica unitaria alle ricerche paletnologiche italiane, raccogliendole in una struttura “centrale” nella nuova capitale del Regno d’Italia. La documentazione delle culture preistoriche assume in quel contesto anche il fine di creare e promuovere l’identità nazionale italiana durante la formazione del nuovo stato unitario, rispondendo quindi a un preciso intento politico.

Il nuovo allestimento mira a ripercorrere la storia delle collezioni fino alle più recenti scoperte e a contestualizzare e mettere in discussione, da vari punti di vista, la definizione stessa di “preistoria”. Essa coinciderebbe infatti con la “storia prima della storia”, ovvero con il periodo che dal divenire biologico dell’essere umano giunge al formarsi di civiltà caratterizzate dal fatto di non aver lasciato fonti scritte. Ma la storia inizia davvero con la scrittura, come ci hanno insegnato a scuola? Ed è corretto dividere in modo così netto il racconto dell’esperienza umana sul pianeta Terra, affidando a un ipotetico “prima della storia”, e quindi a prima della comparsa della scrittura, i milioni di anni che compongono la maggior parte di quest’esperienza?

Non chiamiamo più questa sezione “Preistoria” proprio perché ci racconta anch’essa una “storia”: la quale è composta, se non da testimonianze scritte, dalle innumerevoli storie che emergono dallo studio e dall’interpretazione delle testimonianze materiali lasciate da chi è vissuto prima di noi e che ci restituiscono, nel loro insieme, molteplici sistemi di pensiero, invenzioni culturali, organizzazioni economiche, politiche e sociali in un intreccio che non ha seguito un’evoluzione lineare ma che ha conosciuto invece continui adattamenti e trasformazioni, migrazioni, contatti, competizioni, crisi e, persino, estinzioni.

Sviluppatosi gradualmente a partire dal XIII secolo, il concetto di “preistoria” fu inoltre usato strumentalmente nella seconda metà del XIX secolo anche per sostenere la formazione delle identità nazionali occidentali, identificando l’altro da sé come qualcosa di primitivo, ancora immerso in un tempo preistorico e, quindi, estraneo alla linearità evoluzionistica della modernità occidentale. Queste teorie hanno spesso coinciso con idee di superiorità razziale a cui può, almeno in parte, essere connessa anche l’associazione fra preistoria e civiltà extraeuropee. Mentre le ricerche più recenti, come quelle sul DNA o che riscrivono il rapporto natura/cultura come ecosistema unitario, stanno rivelando un’immagine delle origini dell’umanità di per sé policentrica e inter-specie, ovvero ripensata oltre la suddivisione fra le singole specie.

L’intera sezione si riconfigura così come il complesso e stratificato racconto dell’Antropocene, ovvero l’epoca degli esseri umani che hanno co-abitato per millenni con le altre specie la Terra, spesso pensando di controllarle, e che oggi appunto – di fronte a crescenti forme di disuguaglianza e rischi ambientali, climatici, pandemici, indotti in molti casi proprio da noi esseri umani – potrebbe giungere presto al suo termine.

Per riflettere su questi scenari che congiungono passato, presente e futuro, la sezione inizia con un’“ominazione scientifica” che traccia i processi che hanno condotto all’attuale specie umana e prosegue rappresentando le civiltà dal paleolitico fino all’epoca dei metalli. Sono inoltre presentati i materiali di lavoro e ricerca quotidiana degli archeologi e degli antropologi e riallestiti alcuni elementi storici del display museale attraverso i decenni. Ma poiché questa storia è ancora in corso, e sta continuando con noi, la sezione termina con un’“ominazione immaginifica” che, affidata a vari autori e in periodico aggiornamento, ci permette di immaginare insieme possibili sviluppi e renderci creatori consapevoli e responsabili di nuove storie, di cui siamo i protagonisti.

Nella sezione sono inoltre presenti alcuni interventi di artisti contemporanei che, conducendo verso nuove domande la narrazione museografica, interrogano e coinvolgono in questa narrazione anche le nostre sensibilità e le nostre percezioni. I primi artisti chiamati a questo compito sono l’artista Ali Cherri (1976, Beirut, Libano. Vive e lavora tra Beirut e Parigi, Francia; Leone d’argento alla Biennale d’Arte di Venezia 2022) – di cui il Museo delle Civiltà introdurrà in collezione il film The Digger, che mette in relazione l’operazione di scavo archeologico con quella di formazione di un’identità nazionale, negli Emirati Arabi – e l’artista e antropologa Elizabeth A. Povinelli (1962, Buffalo NY, Stati Uniti d’America, vive e lavora tra New York, Stati Uniti d’America e il Northern Territory, Australia), membro del collettivo indigeno australiano Karrabing Film & Art Collective, la quale è intervenuta sulle pareti del percorso espositivo con una serie di testi e immagini che problematizzano il concetto di “preistoria” reinterpretandolo come “sedimentazione”.

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