“L’arcobaleno riposa sulla strada” Istituto Svizzero / Roma

16 Gennaio 2023

Negli ultimi tempi mi capita spesso di sognare un gattino nero. Una mia amica trascrive i suoi sogni seduta stante, di notte, a matita e senza punteggiatura. Io, invece, mi sforzo di tenerli a mente quando è giorno, ma spesso mi sfuggono. Meret Oppenheim ha sempre trascritto i sogni che faceva, in ogni fase della sua vita. Usava le virgole solo in casi eccezionali. Conoscendo le idee dello psichiatra C.G. Jung (1875-1961), che riteneva i sogni espressioni peculiari dell’inconscio, l’artista ne apprezzava la presenza. Tuttavia, come ha sempre sottolineato, le sue opere non erano illustrazioni di sogni.

Esaminarne i contenuti significava piuttosto lavorare sulla propria personalità, stabilire con precisione il proprio modo di stare al mondo e, insieme, riflettere sullo stato del mondo al di là del proprio sé («Gli artisti e le artiste sognano per la società», diceva). Aspetti, questi, che si manifestano in tutto il suo lavoro – nei dipinti, nei disegni, negli oggetti, nelle sculture e nelle poesie – e che testimoniano la sua consapevolezza del valore dell’inconscio, la sua sete di nuove idee, il suo pensiero indomito.

La mostra intitolata L’arcobaleno riposa sulla strada (“Der Regenbogen lagert in den Strassen” è un verso della poesia Endlich! Die Freiheit!, Finalmente! La libertà!, scritta nel 1933) mette in dialogo una selezione delle sue opere con opere di artiste/i contemporanee/i. Senza decretare una parentela stretta, la mostra traccia connessioni, temi condivisi e genealogie segrete. La scelta delle/ degli artisti – Pascale Birchler, Miriam Laura Leonardi, Hunter Longe, Lou Masduraud, Luzie Meyer e Ser Serpas – risponde a queste premesse ed è al tempo stesso intuitiva. È molto probabile che Meret Oppenheim si sarebbe interessata alle loro opere e idee, intavolando con loro un dialogo serrato.

Lou Masduraud, attualmente impegnata a lavorare a un progetto di fontana per la città di Ginevra, apre la mostra con la sua nuova scultura, la fontana Spit kiss from earth (2022). La base è costituita da una pietra di tufo che in estate l’artista ha collocato nel giardino dell’Istituto Svizzero e sulla quale stanno crescendo i primi piccoli muschi. Nella veranda dov’è collocata la fontana, l’acqua sgorga da una bocca di marmo; sul tufo l’artista ha applicato piccole perle di agata, ametista, vetro e altri materiali, vedo anche delle ossa. Lou Masduraud ha creato, mi scrive su WhatsApp, «a kind of biotope», una «living nymph».

Il lavoro attinge anche dalla sua ricerca sulle fontane negli spazi pubblici, a Roma e in altre città. Qual è la funzione pratica, sociale e rappresentativa di queste fontane? Quale potere simbolico può avere l’acqua che zampilla nello spazio urbano? Come vengono trattati i depositi di calcare che si formano sulle superfici, i muschi e le piante che vi crescono sopra? Nel 1982, Meret Oppenheim era stata incaricata dalla città di Berna di progettare una fontana per una piazza centrale. Il progetto, che alla fine è stato realizzato con alcuni compromessi, ricorda una torre surrealista di Giorgio De Chirico; l’acqua che scorre incoraggia la crescita di piante sulla superficie di cemento.

Per Meret Oppenheim, il potere trasformativo e creativo della natura è parte integrante del design. L’ottuso establishment bernese degli anni Ottanta aveva reagito indignato. Lo Spit kiss di Lou Masduraud evoca per me la presenza di vari ecosistemi che insieme formano una comunità di organismi diversi, il potere della Terra e il nostro modo di rapportarci a tutto questo. Nella prima sala, il volto di Meret Oppenheim tiene lo sguardo puntato su di noi. Nel suo Portrait mit Tätowierung (Ritratto con tatuaggio, 1980), l’artista si mostra con le guance, il naso e la fronte ricoperti di motivi ornamentali. Per realizzare il ritratto, ha lavorato su una fotografia usando uno stencil e una vernice spray. Altera e insieme ironica e complice, si presenta come una sorta di capotribù, forse una sciamana. I tatuaggi potrebbero avere una funzione rituale. Meret Oppenheim allude quindi non solo al culto della personalità nel mondo dell’arte (da lei stessa sperimentato negli anni Ottanta), ma anche al suo legame con la natura e con il mondo dei miti.

Pascale Birchler per la prima sala crea un esteso intervento site-specific, realizzato con un tessuto leggermente traslucido che ricorda una tenda o un sipario, ed evoca insieme un passaggio o una transizione, sollecitando dunque una riflessione sulle cose (ancora) velate che si celano dietro le realtà provate, dietro il mondo visibile, e rimanda non solo alla ricerca di Meret Oppenheim sul lato nascosto, sull’inconscio, ma all’arte stessa come modo di esperire il nuovo, il non ancora visto. Davanti a una struttura simile a un sipario, Pascale Birchler ha collocato la sua scultura Der Wanderer (Il viandante, 2018). Arti allungati, occhi chiusi, un fiore azzurro in bocca. «Tengo in mano una grande genziana azzurra contro il sole che tramonta», annotava Meret Oppenheim nella sua trascrizione di un sogno del 1929. Il fiore azzurro è il simbolo per eccellenza della romantica Sehnsucht, il desiderio struggente. Per Pascale Birchler, la figura del viandante si ispira ai Quaderni di Malte Laurids Brigge, che Rainer Maria Rilke inizia a scrivere a Roma nel 1904, in cui l’insopportabile angustia di uno spazio interiore si contrappone al desiderio struggente di un mondo esterno, altro. E forse il viandante qui è anche un sognatore e io, visitatrice della mostra, mi trovo nel mezzo di tutto questo, nello spazio silenzioso tra il visibile e l’invisibile.

Le Schmetterlingsstühle I/II (Sedie a farfalla I/II, 2019) enfatizzano la quiete dello spazio interiore ed evocano l’assenza di una persona che ha appena varcato la soglia ed è sparita. Al tempo stesso, sono un ibrido fra oggetto d’arredo, scultura e animale. Ricordano anche Tisch mit Vogelfüssen (Tavolo con zampe di uccello, 1939) di Meret Oppenheim, che incontreremo poco dopo. Anche la gouache di Meret Oppenheim Raupe in Metamorphose (Bruco in metamorfosi, 1954) allude a una transizione: il bruco che diventa farfalla. Nella sala successiva incontriamo ancora farfalle e bruchi. Sono motivi ricorrenti nel linguaggio di Meret Oppenheim e forse possono essere letti anche come un riferimento alla convinzione, per lei fondamentale, della metamorfosi di tutti gli esseri viventi e in particolare delle trasformazioni che avvengono nella psiche umana. Le sei litografie della serie Parapapillonneries (1975) mostrano bruchi, falene e farfalle molto differenti tra loro. In questo senso, il bruco peloso con le ali fatte di canovacci da cucina e inadatte al volo forse può anche essere inteso come una riflessione sul ruolo delle donne nella società.

Nel 1975, in Svizzera le donne avevano ottenuto il diritto di voto soltanto da quattro anni. «La libertà non te la dà nessuno, te la devi prendere», dice Meret Oppenheim nel 1975, nel suo discorso di ringraziamento per il Premio d’Arte della Città di Basilea. Anche i due grandi disegni di Pascale Birchler esposti nella stessa sala raffigurano farfalle, ma hanno ali fatte di conchiglie e gusci di lumaca. La metamorfosi sembra aver raggiunto un’altra fase, ancora sconosciuta. Creature altrettanto fantastiche e surreali compaiono nelle opere in ceramica di Meret Oppenheim, Sechs Urtierchen und ein Meerschneckenhaus (Sei animali primordiali e un guscio di chiocciola di mare, 1978). Il tendere alla volatilità e alla trasformazione è insito anche nel motivo della nuvola su cui Meret Oppenheim, giocando proprio su questi contrasti, ha lavorato intensamente, specie negli anni Sessanta, riproducendolo in bronzo e come multiplo in poliestere (si veda ad esempio Nuage sur un pont (Nuvola su un ponte, 1978). E, a risplendere sopra, Der volle Mond (La luna piena, 1964), un corpo celeste che l’affascinava.

Meret Oppenheim esprimeva la fascinazione per la metamorfosi e il cambiamento anche nelle sue strategie artistiche. Si sottraeva alla continuità e non voleva chiudersi in uno stile: dinamicità della mente e autodeterminazione artistica erano due prerogative che le stavano molto a cuore. All’inizio degli anni Settanta, insieme ad amiche e amici, aveva riscoperto il procedimento dei Cadavres exquis, metodo escogitato dai Surrealisti per la produzione collettiva e casuale di testi e immagini, ottenuta piegando un foglio di carta in modo da lasciare visibile solo una piccola area sulla quale, poi, si disegna o scrive qualcosa, ignorando ciò che è stato disegnato o scritto prima. Anche i disegni nati per gioco nella sua casa di Carona (Svizzera) testimoniano, credo, lo sforzo di diversificare l’espressione artistica e giocare con l’elemento intuitivo, incontrollabile. E il suo senso dell’umorismo che, sento dire, era scabro e sottile. Meret Oppenheim aveva realizzato Das Ohr von Giacometti (L’orecchio di Giacometti, 1933/1977) prima in cera e poi in bronzo nel 1959 (e come multiplo nel 1977) da un disegno eseguito a Parigi nel 1933. «Ero al caffè con [Alberto] Giacometti, mi sono seduta accanto a lui e ho osservato il suo orecchio. E poi ho visto, sì, una piccola mano davcui nascevano due piante. A casa l’ho disegnato».

Il piccolo orecchio con la mano ancora più piccola ricorda i motivi dell’Art Nouveau ed è una rappresentazione tanto sottile quanto ironica del collega artista che, negli anni Cinquanta, stava già riscuotendo un grande successo. Meret Oppenheim guardava con sottile ironia anche al suo stesso lavoro, in particolare al Déjeuner en fourrure (Colazione in pelliccia, 1936), la tazza in pelliccia famosa in tutto il mondo, che più e più volte, nelle sue conversazioni, ha demistificato (la chiamava «la vecchia»). Negli anni Sessanta e Settanta, ha eseguito riproduzioni in poster d’autore di fotografie della tazza in pelliccia e di un collage intitolato Souvenir du déjeuner en fourrure. Anche l’Eichhörnchen/ L’Écureuil (Lo scoiattolo, 1969) può essere letto come un’allusione ironica, intelligente e spiritosa alla tazza in pelliccia e soprattutto materiale carico di una valenza evocativa estrema ci riportano di colpo ai Surrealisti. Meret Oppenheim era consapevole della carica storico-culturale della pelliccia come materiale ferino, persino erotico, e negli anni Trenta non solo l’aveva usata per rivestire la sua tazza da tè, ma anche per creare accessori come braccialetti o anelli, poi venduti alla stilista italo-francese Elsa Schiaparelli; abbiamo anche bozzetti di scarpe bordate di pelliccia e guanti di pelliccia realizzati nel 1936.

Nella sala successiva, gli Handschuhe (Guanti) ricoperti di venature sottili (prodotti nel 1985 come riproduzioni d’autore per la rivista d’arte Parkett) riprendono uno schizzo degli anni Quaranta: Meret Oppenheim penetra nell’arto di chi indossa quei guanti e proietta sul dorso della mano ciò che in realtà pulsa in segreto. Il Tisch mit Vogelfüssen (Tavolo con zampe di uccello, 1939) rivela un approccio altrettanto fantastico al design di oggetti d’uso quotidiano. Progettato per una mostra di mobili d’avanguardia allestita nella galleria parigina di René Drouin e Leo Castelli, l’oggetto stabilisce una sorta di simbiosi tra mobili e animali. Le sculture di Ser Serpas, nella stessa sala, sono una sorta di assemblaggio poetico o ready-made di oggetti trovati per strada o ricevuti in regalo, e ricordano le sculture realizzate con objets trouvés da Meret Oppenheim con amici e amiche negli anni Settanta. Ser Serpas afferma: «I only work with things that have been loved worn and stained!» (“Lavoro solo con cose che sono state amate, indossate e macchiate!”). L’artista ha ricevuto in regalo da amiche/amici i ritagli di tessuto, che ha poi intrecciato a formare un telone poi utilizzato in una performance al MoMa PS1, dopodiché erano rimasti a marcire per mesi nel suo cortile.

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