“Lonely Are All Bridges. Birgit Jürgenssen e Cinzia Ruggeri” Fondazione ICA / Milano di

di 4 Marzo 2025

Lonely are all bridges è il verso di una poesia emblematica scritta da Ingeborg Bachman nel 1953 che dà il titolo alla mostra presso Fondazione ICA a Milano, una riflessione sulle affinità evocative tra due artiste che in vita non si sono mai conosciute. Il “ponte” in questo caso, metafora dell’ingigantirsi di passaggi infinitesimali, sta a indicare l’apertura all’altro, la dimensione dell’attraversamento e quella di un ipotetico incontro. Birgit Jürgenssen (1949-2003) e Cinzia Ruggeri (1942-2019), accomunate da una visione sperimentale e sovversiva continuano in questa occasione una simulata conversazione, già avviata nel 2021 presso la Galleria Hubert Winter di Vienna – sempre a cura di Maurizio Cattelan e Marta Papini – in cui erano stati messi in risalto i loro sorprendenti legami. Nate alla fine degli anni Quaranta, entrambe hanno esplorato il ruolo della donna nella società, affrontando tematiche legate al corpo e condividendo un linguaggio espressivo basato sulla decostruzione dei ruoli. Entrambe hanno sfidato il concetto di femminilità imposto dalla società, sebbene con mezzi diversi: Ruggeri facendo esplodere le definizioni e i confini delle singole discipline, Jürgenssen, affrontando temi legati all’identità femminile e alla critica delle strutture patriarcali. Il loro lavoro è stato riscoperto e rivalutato negli ultimi anni nel contesto di una ricerca artistica che esplora il corpo, il genere e la critica sociale.

Con approccio visionario e occhio critico verso le norme sociali imposte, le creazioni di Cinzia Ruggeri mescolano arte, design e performance sfidando le convenzioni del vestire e trasformando gli abiti in opere concettuali. «–Lo si voglia o no, l’abito è lo spettacolo (sempre intenzionale) di noi stessi–», diceva citando Il senso della moda (2008) di Roland Barthes, saggio del 1967 che enfatizzava l’aspetto semiotico e comunicativo della moda. Abiti a scale e abiti dalle geometrie fluide, i suoi sono pensati come architetture che si indossano ma che soprattutto si abitano. In mostra troviamo un vestito di organza verde – che richiama il celebre Omaggio a Lévi Strauss, indossato nel 1984 da Antonella Ruggiero per la cover di Aristocratica e ora nella collezione del Victoria and Albert Museum di Londra. L’idea di ‘strutturare’ un abito come uno ziqqurat, una delle prime forme di architettura complessa nella storia dell’umanità, riflette sul fatto che ciò che indossiamo non è che il primo modo in cui abitiamo il mondo.

Servendosi di illusioni ottiche e metamorfosi, Jürgenssen esplora invece il corpo femminile come luogo di oppressione, trasformazione e resistenza, denunciando la dimensione domestica a cui il femminile è confinato. In Housewives’ Work (1973), ad esempio, una donna viene rappresentata mentre stira un uomo in carne e ossa e lo ripiega come se fosse una semplice camicia per impilarla poi insieme alle altre. Spesso le sue fotografie e i suoi disegni includono elementi di trasformazione, in essi il corpo della donna si fonde con oggetti domestici o industriali per simboleggiare la fusione tra identità femminile e attività casalinghe. Anticipando teorie come quelle di Judith Butler e lavorando sul concetto di identità mutevole e performativa, le sue opere suggeriscono che la femminilità non è un dato biologico, ma una costruzione sociale e culturale.

Il fascino per l’ornamento è un altro elemento che accomuna le due artiste, l’accessorio come strumento espressivo per ridefinire le possibilità della donna nella società: guanti, cappelli, e soprattutto scarpe. Utilizzate come dispositivo narrativo e interpretate in alcuni casi come un’estensione del corpo stesso, evocano il concetto di trasformazione e conquista del proprio spazio. Tra mitologia e magia, le scarpe hanno da sempre avuto un forte valore simbolico, nel mito come nelle narrazioni popolari rappresentano il passaggio da uno stato all’altro. Come per Ruggeri e Jürgenssen le scarpe non sono mai solo scarpe. Tra ironia e surrealtà, sperimentazione materica e decostruzione formale diventano un veicolo capace di costruire il proprio incedere e raccontare ancora il corpo, l’identità, il potere e la costrizione.

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Rita Selvaggio