A School of Fireflies. Una conversazione con Daniel Blanga Gubbay Kunstenfestivaldesarts / Bruxelles di

di 15 Maggio 2025

Sospesi tra immaginazione, eccitazione e stanchezza, a pochi giorni da Kunstenfestivaldesarts, ci siamo incontrati verso sera con il co-direttore artistico Daniel Blanga Gubbay parlando di buio, pratiche curatoriali e pedagogia. Nel frattempo, Spagna e Portogallo sprofondavano in un blackout totale, restituendoci l’immagine di un Occidente cieco più che buio. Senza saperlo, ci siamo immersi in questa oscurità, che non ha la pretesa di illuminare, ma di restare al buio e condividerlo.

Alberto Groja: Poco fa parlavamo del fatto che siamo sommersi dalle cose e di come non sempre riusciamo a incanalarle nel modo giusto, lasciando che la stanchezza ci trascini in stati di condivisione a volte spiacevoli, ma altre anche piacevoli. Volevo partire da questo, dalla stanchezza di fine giornata che stiamo condividendo. Mi interessava chiederti come, in questo momento di prossimità al festival, il tuo corpo stia in parte assorbendo le energie dalle persone che ti circondano, mentre dall’altra lavorando nel pensare a un festival di arti performative. Chiaramente si parla spesso di corpi dei performer all’interno di Kunstenfestivaldesarts, però mi incuriosiva questa dimensione più intima e curatoriale: come il tuo corpo, nel corso degli anni o in questa specifica edizione del festival, stia reagendo.

Daniel Blanga Gubbay: Sicuramente c’è una parte, rispetto alla domanda che lanci, che è molto presente nella fase di preparazione del festival. Ovvero nella relazione con artiste e con artisti che non passa soltanto dalla comprensione o dal fatto di poter in qualche modo sapere assieme cosa si sta facendo, ma proprio dall’eccitazione di non saperlo. In questo senso per me c’è una parte del fare e del pensiero che passa dal corpo, dall’accelerazione dei battiti, dal flusso di sangue. Quel momento dove si percepisce che c’è qualcosa che non riusciamo completamente a nominare, che si sta affacciando nella conversazione e che spesso ho l’impressione che spinga le artiste e gli artisti, e anche me stesso, a cercare di indagare cosa sia. Il corpo è coinvolto in tutto quello che va al di là del dicibile, e che rimane per me fondamentale nella pratica artistica. Quindi da una parte c’è questa eccitazione data dall’ignoto, e dall’altra la stanchezza.

AG: È un po’ quella stanchezza da post-performance, quando il corpo è talmente esausto che si lascia andare. Quello stato in cui il corpo si trova dopo una corsa. Non in senso poetico, ma fisico.

DBG: Sì, per me c’è una parte di abbandono che esiste dell’essere spettatori e spettatrici nella pratica performativa, qualcosa che mi affascina sempre: l’idea di abbandonarsi a una temporalità gestita da altre e altri, che è molto diversa dal visitare una mostra, in cui si ha la possibilità di gestire singolarmente la drammaturgia della propria esperienza. Nella pratica performativa – o nei lavori teatrali o di danza che spesso accompagno al festival – siamo abbandonate nel buio della sala: il tempo viene gestito, io delego il controllo e abbandono il mio corpo. È qualcosa che mi affascina, soprattutto in un momento di iperstimolazione in cui siamo costantemente obbligate a usare il tempo, a farlo nel modo più efficiente possibile. Nel tempo della performance talvolta non c’è nessuna efficienza, ti è richiesto di lasciarti andare, una dimensione molle della gestione del tempo, che si avvicina alla stanchezza nel senso più bello del termine, la stanchezza dell’abbandono. Questa è una qualità del corpo che trovo davvero preziosa.

Leonardo Bentini: Mentre parlavi della pratica performativa e il suo rapporto con l’abbandono, mi risuonavano alcuni concetti di Maurice Blanchot in La scrittura del disastro (2021), un testo nel quale ci invita a riflettere sul significato etimologico della parola disastro – lontano dagli astri – dove perdere i percorsi che le stelle segnano, significa inevitabilmente finire per camminare nel buio e scontrarsi con tutta una serie di dinamiche relative al perdersi, all’abbandonarsi, ma anche all’ascoltarsi poi di nuovo. In questo senso ti chiedo come la dimensione di buio entra dentro a questa edizione della Free School del Kunstenfestivaldesarts (dove le fireflies mi sembrano un po’ quegli astri che non ci sono più) e quanto tutto questo sia in relazione con il concetto di potere analizzato da Pier Paolo Pasolini in Il vuoto del potere (1975), articolo da cui avete preso spunto per il titolo di questa edizione.

DBG: Quella del buio è un’immagine che in qualche modo mi ha posseduto e inseguito negli anni. L’anno scorso ero stato invitato all’università IUAV di Venezia per tenere un seminario sulla curatela e l’ho intitolato Lessons of Darkness proprio perché nella pratica performativa per me c’è un’importante questione relativa al buio, l’apertura di uno spazio estremamente promising, fertile, in cui qualcosa sta entrando senza esattamente percepire cosa sia. C’è un’immagine molto bella che Rebecca Solnit utilizza nell’introduzione in Hope in the Dark. Untold histories, wild possibilities (2016), quando parla di una cena a casa durante la Pasqua ebraica e racconta di come una porta veniva lasciata aperta sul buio, con l’idea che qualcuno potesse entrare, introducendo così l’idea del buio come uno spazio potenziale, sia individualmente che collettivamente. È simile alla maniera in cui Giorgio Agamben descrive il buio dell’oscurità in Che cos’è il contemporaneo? (2008) – anche riferendosi alle immagini degli astri che portavi – di come la volta celeste sia fatta non solo di stelle ma di spazi bui tra una stella e l’altra. È su questi spazi che bisogna concentrarsi per vedere quello che ancora non è apparso, non è dominante, eppure è già là. Questa dimensione del buio l’ho sempre percepita estremamente fertile per poter descrivere la pratica curatoriale, che è spesso una pratica di ascolto di ciò che è là, nonostante non sia ancora completamente visibile come immagine dominante per noi, (ma magari lo è per altri). Al tempo stesso l’immagine del buio invita alla possibilità di perdere le proprie certezze, di non sapere esattamente dove ci si trova, di essere smarrita, smarrito. È l’immagine di un cruising durante la notte; essere alla ricerca senza sapere di cosa, senza poter identificare esattamente l’oggetto del desiderio, di cercare ed essere al tempo stesso cercate, cercati, di perdere l’orizzonte di divisione tra soggetto e oggetto del piacere, della ricerca, scomporre l’epistemologia moderna. La bellezza per me nella pratica curatoriale è proprio questa vulnerabilità che c’è nel momento della ricerca; questo non sapere esattamente cosa stai cercando, sapere che la ricerca può essere completamente improduttiva, che non è efficace, e proprio per questo apre spazi di miracoli, che soltanto il buio appunto può aprire. Questo per dire che il buio può in alcuni casi essere un momento in cui il corpo è in allerta, ha i pori aperti per captare quello che altrimenti non avrebbe gli strumenti per fare. Mi chiedevi prima della Free School di quest’anno e per me è quello che è presente nell’immagine di Pasolini non è soltanto che le lucciole sono in via di estinzione, ma è l’oscurità stessa che è in via di estinzione. Per Pasolini il cuore di questa estinzione è l’idea che ci sia una luce del progresso così violenta, così forte da non permettere più quell’oscurità, finendo per attirare la nostra attenzione pigra. Per me la bellezza dell’articolo è che non è solo un grido per salvare le lucciole ma anche per salvare l’oscurità, la condizione necessaria per la loro apparizione. Parla di una modernità che ha fatto della luce la propria immagine principale: la costruzione del progresso, l’idea di razionalità, l’idea di un’iper-accelerazione nel capitalismo. Tutto va in questa direzione della luce, della sua velocità, della brillantezza, della chiarezza della comunicazione e della sua efficienza; mentre appunto l’oscurità richiede il suo posto e resiste al suo posto nell’inefficienza, nella vulnerabilità e soprattutto del perdersi in qualcosa che non porterà a nulla e al tempo stesso proprio perché non porterà a nulla, potrebbe portare tutto, tutt’altro.

AG: Ho spesso pensato che in Italia ci sia troppo sole, nel senso di analisi e ricerca, proprio per questa critica all’iper-socialità, all’iperproduzione dalle quali siamo costantemente illuminati. Mi viene anche da riflettere sullo stato della performance all’interno dei musei, da Faust (2017) di Anne Imhof in poi, quella sorta di iper-immagine che ha una luce intensa, dentro il white cube, che sovrappone luci su luci e crea una sovrapproduzione di lampade a led, facendo in qualche modo scomparire ciò che dicevi tu sulla performance e su quel lasciarsi andare. Anche rispetto al pubblico, al quale servono le condizioni necessarie affinché questo lasciarsi andare possa accadere. Rispetto a The School of Fireflies, vi siete chieste cosa rischia di scomparire oggi e, di conseguenza, cosa potrebbe ricomparire oggi che forse non vorremmo che ricomparisse?

DBG: La Free School è un progetto che abbiamo creato fin da quando ho preso la direzione del festival, di cui è appunto l’unica parte tematica. La maggior parte del programma del festival è composto da nuove commissioni di progetti performativi. Questo ci permette, come dicevamo prima, di accompagnare artiste e artisti in progetti che non esistono ancora, basandoci molto sull’incerto, e proprio per questo, mi è sempre piaciuto non farlo in maniera tematica all’interno del festival, ma rimanendo in ascolto di quello che ogni progetto poteva sviluppare, suggerire. Questo negli anni ha implicato guardare la pratica curatoriale come una pratica di ascolto di quello che emerge dai progetti artistici, senza scegliere a priori una tematica che orienti lo sguardo nella ricerca curatoriale. È sempre interessante vedere come emergano questioni che risuonano in vari progetti, qualcosa che ci porta inevitabilmente a un certo punto nella programmazione a individuare alcune preoccupazioni condivise da artiste e artisti. La scuola spesso emerge in quel momento, in risonanza con il programma. Negli anni passati le edizioni della Free School sono state legate per esempio alle metodologie di trasmissione del sapere nella diaspora, o a una scuola che interessa la politica del linguaggio o la musica come forma di sapere, e nella scorsa edizione, allo spazio della cucina come uno spazio di condivisione del sapere. L’idea della Free School spesso non è soltanto legata a un contenuto, ma anche alla volontà di riflettere sulle modalità di trasmissione del sapere nell’epistemologia occidentale. E quindi spesso a indagare non soltanto il contenuto, ma le modalità attraverso le quali il sapere circola in un contesto come quello di Bruxelles. La scuola di quest’anno da un lato è nata immediatamente con il testo di Pasolini [Il vuoto del potere, 1975], che quest’anno compie cinquanta anni e che nella primavera del 2025 idealmente ripone la stessa domanda a mezzo secolo di distanza. Dall’altra, abbiamo visto sorgere in diversi progetti artistici questioni sull’idea di sparizione e di resistenza; di estinzione naturale (il progetto Selvagem, o ancora Onfalo, un progetto incredibile all’intersezione di musica sperimentale e scienza di Enrico Malatesta, Attila Favarelli e Juan Lopez), di sparizione, delle connessioni tra genocidio ed ecocidio, o il progetto Revive Gaza’s Farmland. Altri hanno portato uno sguardo sul rischio dell’erosione di uno stato democratico e quindi la libertà di parola in Europa; o l’erosione dei diritti, la capacità di percepire che non esiste conquista che non sia reversibile; l’invisibilizzazione di narrative – penso al lavoro che stiamo facendo con Archivo della Memoria Trans per esempio; o una serie di talks con Georges Didi-Huberman, Jack Halberstam, Elizabeth Povinelli o Federico Campagna. La Free School di quest’anno invita a riflettere su cosa vogliamo preservare e quali sono gli strumenti per resistere alla sparizione di qualcosa.

LB: Tutto questo mi sembra molto legato all’allarme che Pasolini cercava di passare attraverso l’articolo, mi ero appuntato un passaggio dove scriveva «di tale potere reale noi abbiamo immagini astratte in fondo apocalittiche, non sappiamo raffigurarci quali forme esso assumerebbe sostituendosi direttamente ai servi che l’hanno preso per una semplice modernizzazione di tecniche». Lui stava cercando di avvisare le generazioni a lui contemporanee, su quanto il potere – che lui stesso cerca di figurarsi dentro l’articolo – sia talmente capillare che a un certo punto diviene irriconoscibile, quasi attraverso un’operazione di camouflage militare. È un po’ come dicevi prima della luce che sovrasta il buio e di quanto non ci accorgiamo di questo processo perché in realtà stiamo vedendo, no? Sulle questioni di cui vi state interrogando con la Free School, su come si trasmette il sapere e quali sono i metodi di trasmissione, ti chiedo dove vi ponete rispetto al fatto oggi viviamo in una dimensione in cui l’istituzione scolastico-educativa è sempre di più un’istituzione di potere – come scriveva Ivan Illich in Descolarizzare la società (1989) – nella quale l’esperienza pedagogica è estremamente legata a una dimensione capitalista dell’apprendimento e della produzione di sapere. Dove finisce questa dimensione improduttiva di cui parliamo in uno spazio che è un’istituzione fuori da queste e funziona però come una struttura che comunque si interroga sulle stesse questioni? C’è ancora una reversibilità in questo?

DBG: Sì, un inciso che devo fare su questo è che in realtà Kunstenfestivaldesarts comunque rimane una grande istituzione e quindi non può avere la pretesa di porsi completamente all’esterno. È importante sottolineare questo, perché siamo un’istituzione pubblica, che io rivendico molto proprio nella missione pubblica della cultura. Però forse il ragionamento potrebbe essere più legato alla questione della scuola stessa. Quando è stata chiamata Free School, l’idea per me era sottolinearne l’accessibilità e la gratuità (ogni anno la scuola attira circa 1200 partecipanti che principalmente non vengono da contesti accademici). Ma il nome allude anche all’idea di uno spazio di libertà pedagogica che le istituzioni accademiche troppo spesso non hanno. Nonostante esistano tantissimi tentativi all’interno dell’accademia stessa, c’è sempre una tensione tra la possibilità di reinventare la modalità del sapere e il fatto di dover rientrare all’interno di una griglia pedagogica che permetta a quell’istituzione di esistere. Non lo dico in termini negativi, ma con grandissima stima rispetto a tutti i colleghi che lavorano nelle accademie. L’idea della Free School nasceva in qualche modo anche in complementarità rispetto a questo paesaggio, ovvero l’idea che, come istituzione artistica, non abbiamo nessun vincolo accademico, noi potremmo anche non avere nessuna scuola, e nessuno ci direbbe nulla. E proprio perché la scuola è superflua, è assolutamente libera, perché non segue nessun programma prestabilito, e questa per me è la parte fondamentale: il fatto che le artiste e gli artisti che supportiamo nella Free School non debbano rendere conto a nessuno; che si riconosca che un progetto artistico possa avere la forma della trasmissione del sapere, e allo stesso tempo non debba essere giudicabile rispetto all’efficacia della sua trasmissione. Quindi la Free School esiste non con il desiderio di sostituirsi alle forme accademiche, ma come uno spazio sperimentale all’interno del quale diversi progetti artistici creano una scuola immaginaria.

AG: L’ultima piccola curiosità. Hai studiato con Giorgio Agamben all’università IUAV di Venezia, e poi a Palermo, cosa hai rubato all’istituzione italiana che poi hai portato a Bruxelles? In che modo questo tipo di percorso ti ha formato, o anche semplicemente dato qualcosa?

DBG: Io studiavo a IUAV quando era ancora agli inizi come istituzione, nei primi anni 2000: rappresentava un’eccezione nel contesto degli studi artistici universitari, un’accademia-università che però passava dalla pratica artistica come disciplina di condivisione del sapere. Sicuramente una cosa che mi ha formato, e ancora oggi sento molto presente, è aver avuto presto la fortuna di scardinare la dicotomia tra teoria e pratica. Questo è qualcosa che credo che IUAV mi abbia trasmesso in quegli anni, perché in qualche modo erano co-presenti in maniera molto complementare. Ancora oggi per me la teoria è una pratica, esattamente come qualsiasi forma di pratica artistica, è un modo di pensare, non è qualcosa su cui pensiamo, ma è in sé una modalità di pensiero. Sono sicuramente riconoscente di come questa dicotomia sia stata influenzata dall’esperienza che ho avuto, di cui credo di essere molto debitore a molte delle persone che ho incontrato in quegli anni. Anche Giorgio Agamben che citavi – con il quale ho avuto un lungo percorso accademico – per esempio mi ha dato la possibilità di approfondire molte delle riflessioni sul buio che abbiamo avuto all’inizio di questa conversazione, che sono presenti nel suo pensiero. Altra questione che ogni tanto – insegnando ancora spesso oggi in nord Europa – noto, è come l’idea di formazione artistica si stia trasformando per diventare sempre più efficace alla carriera, in cui i e le partecipanti scelgono i corsi rispetto a quello che interessa la loro pratica. Per me talvolta le parti più preziose sono emerse nell’incontro casuale con cose assolutamente inutili rispetto a quello che pensavo sarebbe stato importante per me in quel momento. Lontano dal voler fare un’apologia dell’inutile, un romanticismo dell’inutile, esiste per me questo attrito che rimane qualcosa che pedagogicamente, metodologicamente, credo mi ha abbia formato.

LB: No, ma secondo me è interessante anche uscire fuori dall’aula. Cioè, questa cosa è molto bella, no? Perché tante volte siamo lì sui libri, sulle cose, invece certe volte magari l’intuito ti porta da altre parti. Seguire anche quello è importantissimo all’interno della ricerca artistica.

DBG: Sì, e questo per me si riallaccia moltissimo alla primissima domanda che mi ha fatto Alberto: le cose che ti fanno vibrare a un certo punto, tutto quello che non capisci esattamente in che modo sia utile o inutile (e talvolta chi se ne frega se lo sarà o meno) che risponde a quelle palpitazioni che guidano verso qualcosa che ancora non capisci…

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Alberto Groja