Roma, Parigi, Manchester, Riyadh: quattro città che disegnano la traiettoria di un curatore che ha fatto della transdisciplinarietà e dell’innovazione il suo marchio distintivo. Valentino Catricalà rappresenta una nuova generazione di operatori culturali capaci di attraversare confini geografici e concettuali, costruendo ponti tra tradizione e futuro, tra ricerca accademica e sperimentazione radicale.
Dalla Capitale italiana – dove ha imparato che “passato e presente convivono in un equilibrato caos” – ai laboratori tecnologici a Parigi, la Gallery a Manchester, fino ai cantieri culturali dell’Arabia Saudita, Catricalà ha sviluppato un approccio curatoriale che sfida le convenzioni del sistema dell’arte contemporanea. Il suo percorso non è solo professionale, ma geografico e culturale: un viaggio che lo ha portato a ripensare il ruolo del curatore nell’era digitale e in contesti culturali in rapida trasformazione.
Pioniere nel coniugare arte e tecnologia, Catricalà ha anticipato questioni oggi centrali nel dibattito artistico contemporaneo: l’intelligenza artificiale, la sostenibilità, le nuove forme di produzione e fruizione culturale. Ma soprattutto, ha dimostrato come la curatela possa essere strumento di trasformazione sociale, capace di attrarre nuovi pubblici e di creare modelli inediti di finanziamento e partnership.
Oggi, dall’Arabia Saudita – dove sta contribuendo a definire uno dei più ambiziosi progetti di sviluppo culturale del XXI secolo – Catricalà offre una prospettiva unica sui nuovi equilibri geopolitici dell’arte contemporanea. In un momento in cui l’Europa fatica a rinnovarsi e il Medio Oriente emerge come nuovo polo culturale globale, la sua esperienza diventa paradigmatica per comprendere le sfide e le opportunità di un sistema artistico in trasformazione.
Un dialogo che attraversa continenti e culture, alla ricerca di nuove forme di curatela per il futuro.
Cristiano Seganfreddo: Partiamo dai tuoi inizi, come sei diventato curatore?
Valentino Catricalà: Ho iniziato a Roma, una città particolare, presa tra il suo “sono stato” e il suo “non ancora”, una città costantemente in potenza, ma spesso, proprio per questo, con grandi difficoltà ad attualizzare e rendere concreto il suo potenziale. Ma Roma è anche una città ispirazionale, una città che, se fatica a imporsi nel mondo dell’arte contemporanea, può essere di grande ispirazione creativa, la storia vive accumulata a Roma, passato e presente convivono in un equilibrato caos: transdisciplinarietà, capacità di connettere ambiti diversi e punti diversi nella storia, questo il suo insegnamento. Il dottorato, sviluppato tra Roma e Dundee, in Scozia, con soggiorni di ricerca allo ZKM di Karlsruhe e alla Tate di Londra, mi ha dato una grande base teorica che mi porto ancora dietro, non riesco a concepire la curatela senza una base teorica forte, che non vuol dire accademica, ma vuol dire avere una prospettiva, una ricerca, una visione. Non prendere solo gli artisti più cool del momento ed esporli, ma portare la propria visione, un approccio che è anche di ricerca.
E così ho iniziato curando mostre e con il primo grande progetto, il Media Art Festival che si tenne al MAXXI di Roma, promosso dalla Fondazione Mondo Digitale, che si è subito imposto come progetto interdisciplinare, che ha saputo portare artisti internazionali, format nuovi, come per esempio le residenze d’artiste all’interno delle aziende di settore tecnologico, come Epson e Google, e nuovi sponsor, da BNL a Samsung al ministero della cultura. Ho sempre cercato di proporre progetti innovativi, di trovare nuove modalità di curatela e di sponsorizzazioni, spesso ai limiti dell’arte contemporanea, come la collaborazione con la Maker Faire di Roma, la più grande fiera di creatività e innovazione d’Europa. O come la collaborazione con il Sony Lab di Parigi. E poi sono andato via, sono andato a Manchester.
CS: In che modo, a Manchester, sei riuscito concretamente a integrare la dimensione educativa della SODA con la programmazione curatoriale del centro espositivo MODAL? Puoi raccontare un esempio specifico di progetto o mostra in cui questa visione integrata tra educazione, produzione e esposizione si è realizzata in modo particolarmente efficace?
VC: A Manchester sono stato assunto come curatore e poi direttore artistico di questo nuovo art center, un nuovo centro per le arti legato alla tecnologia e ai nuovi linguaggi. Un progetto di 35 mln di pound andati alla Manchester Metropolitan University per una nuova School (SODA-School of Digital Art) e un art center (MODAL). Avevamo spazi espositivi dove abbiamo strutturato una narrazione molto chiara che unisse le ricerche dei giovani artisti con i pionieri. Ogni anno si decideva una tematica e sviluppavamo le mostre all’interno di questa tematica. Abbiamo fatto grandi e bellissimi progetti e rivalorizzato pionieri. Anche qui cercai subito di trovare un modo innovativo di concepire la curatela, non separando la school dalla parte espositiva. La school era piena di laboratori tecnologici di altissimo livello, così quando vidi il progetto per la prima volta pensai subito che non potevamo limitarci alla sola parte espositiva, ma poteva essere una nuova visione che unisse le mostre con la produzione e l’educazione. E così facemmo, grazie anche alla collaborazione con enti quali la Fondazione Prada, Serpentine Gallery, il FACT di Liverpool, e a Manchester con i l festival AND e il Manchester International Festival. Fu subito un successo, e così in Arabia Saudita penso mi attenzionarono in quanto “lanciatore di nuovi progetti”.
CS: Dicci del tuo arrivo in Arabia Saudita, cosa ti ha portato a Riad e come si è evoluto il tuo ruolo nel tempo?
Che impressione hai avuto della scena culturale saudita al tuo primo approccio? E cosa è cambiato da allora?
VC: L’arrivo in Arabia Saudita è stato del tutto inaspettato e completamente nuovo: da Manchester a Riyadh, dalla pioggia al sole…da tantissima pioggia a tantissimo sole!
Penso che lanciare una nuova istituzione sia un privilegio oggi, e io ho avuto modo di farlo sia a Manchester che ora. L’Arabia Saudita è un territorio in costante evoluzione, pieno di progetti enormi da costruire. Il vero stimolo viene dal fatto che ci si sente parte di un mondo in costruzione, a differenza dell’Europa dove molto è già costruito, una sensazione nuova per quelli della mia generazione, ma davvero stimolante.
Arrivato in Arabia Saudita, tuttavia, mi resi subito conto che era un paese che non conoscevo e che non mi ero mai sforzato di conoscere. Mi resi conto, insomma, che era un paese con una cultura profonda, completamente diversa dalla nostra, e che dovevo conoscere se volevo lavorare lì. L’Arabia saudita è un posto unico per sua cultura e storia, non è paragonabile al Qatar o agli Emirati, luoghi dove gli internazionali sono la percentuale maggiore. In Saudi tutte le cose che facciamo sono per i sauditi prima e poi per il resto del mondo. E così compresi che capire l’incredibile cambiamento culturale che sta accadendo non poteva prescindere dal non comprenderne la storia e la cultura. Oggi l’Arabia Saudita è un territorio incredibilmente vitale, con una scena artistica giovane e costante evoluzione. Un territorio che sta cercando di unire la tradizione con l’innovazione, di creare un ponte tra la propria storia e cultura con la cultura occidentale. Lo si vede dall’emergere della scena artistica, una scena che sta inglobando i linguaggi dell’arte contemporanea, ma li sta declinando attraverso meccanismi culturali e storici propri. Per questo sono molto interessanti per noi, un qualcosa che non abbiamo mai visto prima.
CS: Sei riconosciuto come uno dei massimi esperti nel rapporto tra arte, tecnologia e innovazione. Come vedi lo sviluppo di questo settore?
VC: Ho studiato molti anni il rapporto tra arte e tecnologia, sentendomi inizialmente parte di settori quali media art, new media art, ecc. Ma penso che oggi molte cose sono cambiate. Oggi è sempre più difficile delimitare ambiti specifici relativi ai rapporti tra arte e tecnologia. Se guardiamo al lavoro degli artisti nati negli anni Ottanta e Novanta ci rendiamo conto che non c’è più una grande distinzione tra dove inizia e finisce un medium. Il modo con cui le nuove generazioni ingaggiano i media è fluido e trasversale, può inglobare media tecnologici e non, innovazione e tradizione. Dunque, non è più il medium a delimitare gli ambiti artisti. Nonostante ciò, ritengo che proprio oggi abbiamo bisogno delle esperienze e delle ricerche maturate dagli anni Cinquanta ad oggi in ambiti che sono stati ai margini dell’arte contemporanea, quali le media art, la videoarte, ecc. Ci sono pionieri che hanno lavorato con l’intelligenza artificiale, con la genetica, robotica, e tanto altro, pionieri marginalizzati dal mondo dell’arte ma che oggi possono rappresentare un modo nuovo di rileggere la storia dell’arte e il nostro contemporaneo. E una nuova prospettiva può arrivare proprio dal lavoro di artisti che operano in nuovi contesti, quali la regione del Mena, che comprende anche l’Arabia Saudita, come la mostra presso il Diriyah Art Future a Riyadh.
CS: In che modo il tuo approccio curatoriale si è trasformato nei diversi Paesi in cui hai vissuto, avendo te un approccio internazionale oltre l’Europa?
VC: Questa è una bella domanda. Effettivamente la mia pratica curatoriale è cambiata molto man mano che cresceva la mia relazione con l’estero. Soprattutto, sin dagli inizi, è stata una pratica basata su un percorso particolare, già il mio dottorato era a metà tra arte contemporanea, cinema e media studies. Questo approccio ha segnato un atteggiamento che, credo, riuscisse a portare nuovi ambiti all’interno del mondo dell’arte, penso ad esempio al rapporto con il mondo dell’innovazione (ho pubblicato anche un libro al riguardo dal titolo, The Artist as Inventor, con l’idea che l’artista che usa tecnologia possa rileggere anche il mondo dell’innovazione), alle collaborazioni con il Sony Lab di Parigi, Epson, Microsoft e Google, ai progetti curatoriali con la Maker Faire. Oppure la collaborazione più recente con aziende del settore dell’entertainment come Lux, con il quale abbiamo portato una mostra dedicata ai rapporti tra arte e inflatable al Grand Palais con un successo di pubblico incredibile. Tutto questo in parallelo a pratiche curatoriali e di ricerca più classiche. Penso alla mostra di Bill Viola a Palazzo Reale o quelle sviluppate a Manchester. In Italia era visto un po’ troppo ai limiti e spesso venivo criticato, a Manchester invece mi hanno incoraggiato ad andare in questa direzione, con partnership di alto prestigio, come la bella collaborazione con la Fondazione Prada per la mostra su Dara Birnbaum.
E questo per sperimentare nuovi progetti, trovare nuovi finanziamenti e attrarre nuovo pubblico. Credo che un nuovo atteggiamento sia fondamentale per il mondo dell’arte, un mondo che ha bisogno di un rinnovamento, dati i tagli di budget e la perdita di pubblico. Spesso ci rinchiudiamo dietro alle nostre ricerche senza guardare alla società che sta cambiando rapidamente anche da un punto di vista tecnologico. E tutto ciò è un campo di sperimentazione incredibile in Arabia Saudita, paese che sta affrontando un cambiamento culturale senza precedenti, e la creazione di un nuovo mondo.
CS: A questo proposito, si parla molto di “nuovi modelli culturali” in medio oriente, soprattutto in Arabia Saudita. Quali sono, secondo te, gli elementi che rendono questo momento storico così unico?
VC: Il medio oriente è un luogo in grande espansione e cambiamento ormai da più di venti anni. Hanno iniziato gli Emirati, Dubai è stata la prima grande città ad affermarsi a livello internazionale come potenza finanziaria ed economica, seguita da Abu Dabi per quanto riguarda la cultura. E sicuramente a seguire Doha in Qatar, rappresentativa di un cambiamento non isolato a un solo Paese ma a una vera e propria volontà di affermazione dei Paesi del Golfo a livello internazionale. Oggi, il nuovo arrivato è l’Arabia Saudita, che si sta affermando a una velocità incredibile con una forza senza precedenti, ma, a differenza degli altri due Paesi, in modo completamente nuovo. L’Arabia Saudita, infatti, è quello con il maggior numero di popolazione locale, cosa che rende molto forte la presenza culturale. Pensiamo che gli Emirati hanno l’88,5% di espatriati, mentre in Qatar i locali sono solamente 15%. Quasi tutti i progetti culturali in Arabia Saudita sono per i sauditi prima e poi per gli internazionali, e non si legano a brand internazionali, come il Louvre o il Guggenheim, ma hanno stili e modalità locali. Questo è molto interessante e penso che possa veramente fare la differenza nell’affermare un nuovo modello culturale, fatto di una unione tra format occidentali e tradizioni locali. Non è una cosa facile ovviamente, ma è la nuova sfida.
CS: L’Arabia Saudita sembra puntare su un’idea di cultura profondamente proiettata verso il futuro, con un forte investimento nella tecnologia e nella sperimentazione. È davvero così?
Qual è, oggi, il ruolo dell’arte contemporanea in un processo di trasformazione così ampio, che coinvolge economia, società, identità?
Qual è il rapporto tra arte contemporanea e nuove generazioni in Arabia Saudita? C’è una domanda di cultura nuova, giovane, sperimentale?
VC: Assolutamente sì. L’Arabia Saudita è un luogo particolarmente digitalizzato, è classificata al quarto posto a livello mondiale per digitalizzazione! La tecnologia, dunque, fa da padrona in una popolazione che per il 70% è composta da under 30. Questa è una delle grandi differenze con l’Europa, i giovani sono la maggior parte, e i cambiamenti in atto derivano da questo territorio vitale che assorbe molto velocemente le innovazioni. Ma non dimentichiamo che l’Arabia saudita è anche un territorio che tiene molto alle proprie tradizioni culturali, che sono molto forti. Tradizione e innovazione sono due termini fondamentali. Questo ha ripercussioni anche sull’arte contemporanea. La scena artistica sta crescendo e molti artisti usano tecnologie e riflettono sui grandi cambiamenti culturali e tecnologici del nostro presente. Da artisti più storicizzati come Ahmed Mater, che lavora da anni su come interpretiamo la realtà attraverso l’evoluzione dei media, a Muhannad Shono, che lavora con materiali organici e tecnologici, da Ayman Zedani sulle tematiche dell’antropocene, o Sarah Brahim, che usa tecnologie analogiche per riflettere sul modo in cui interpretiamo la realtà. La scena artistica è sempre più complessa e variegata, spesso ingaggiando media tradizionali e più tecnologici. Il fattore interessante è che questi artisti stanno sviluppando un linguaggio molto innovativo, in quanto, non solo sperimentano con materiali più avanzati (media digitali, per esempio) e più appartenenti alla loro cultura, ma stanno anche sviluppando tematiche e concetti in modo nuovo, penso al modo in cui affrontano temi quali la spiritualità, cambiamenti sociali, nuove prospettive sull’uomo.
CS: Dopo questi anni intensi, cosa senti di aver appreso tu, come curatore e come persona, da questa esperienza? Che consiglio daresti a chi vuole lavorare oggi in un sistema culturale in costruzione come quello saudita?
VC: Il lavoro internazionale mi ha dato moltissimo, soprattutto se sviluppato su due continenti e due culture completamente diverse. Ho conosciuto non solo nuovi artisti, nuovi curatori, ma ho appreso nuove pratiche e sviluppato una diversa visione dell’arte. Collaborando con il Sony Lab di Parigi ho appreso quanto sia importante unire mondi diversi, come l’arte e l’innovazione, e come sviluppare progetti di ricerca attraverso l’arte. A Manchester ho sicuramente appreso un nuovo dinamismo, e la capacità di unire progetti espositivi con forme di produzione ed educazione innovative, e un rapporto diverso con il pubblico e l’ambiente. Mentre in medio oriente mi sono dovuto confrontare con una nuova cultura, con artisti che hanno sviluppato ricerche in apparenza lontano da quello che avevo studiato ma in verità molto vicine. Costruire progetti sempre più grandi e visionari, costruire istituzioni per il futuro e per le future generazioni. Cosa fondamentale, tutto ciò mi ha aiutato a concepire il museo e l’arte in modo differente, non fare mostre per me, ma pensare a come le mie ricerche possano parlare a un pubblico, come poter attrarre nuovi progetti e dunque nuovi finanziamenti. Attrarre nuovi attori all’interno del mondo dell’arte, come ho cercato di fare con la mostra Euphoria. Art is in the Air al Grand Palais, per esempio, una mostra che sta facendo 5.000 persone al giorno! Un modo, dunque, per rispondere alla crisi dell’arte contemporanea e dimostrare l’importanza di questa oggi e nel futuro.
Ricerca costante, innovatività, non aver paura di andare in territori meno battuti e spesso complessi o giudicati non adatti, questo consiglierei ai giovani curatori.