Alfredo mi ha scritto che alcune regolamentazioni svizzere assomigliano ai suoi lavori. Mi ha raccontato dei viaggi da Torino a Losanna e di un piccolo treno che attraversa le Alpi. Poi mi ha parlato dei poli dell’inaccessibilità: ogni continente ha il suo. Sono i luoghi più remoti della terra, i più difficili da raggiungere, lontani da tutto e da tutti. Ce n’è uno in mezzo all’Oceano Pacifico, si chiama Point Nemo e dista 2700 kilometri dalla prima terra emersa. Si dice che gli esseri umani più vicini a Point Nemo siano gli astronauti della Stazione Spaziale Internazionale. Ho anche scoperto che è lì che vanno a morire i grandi satelliti. Quando si usurano o non servono più, li fanno schiantare in questi luoghi isolati. Si formano allora dei cimiteri galattici: conglomerati di vecchi rottami che hanno un legame assoluto con l’universo.
Il lavoro di Alfredo Aceto è popolato da una moltitudine di storie simili a questa. Storie che si intersecano, si confondono, dalle quali nascono sempre altre storie. Aceto si affida a un metodo “serendipico”, interpreta fenomeni apparentemente casuali, insegue immagini, visioni, idee, e le traduce in partiture narrative che poi collassano su forme e oggetti.
Tra i 14 e i 19 anni si innamora di un deserto paradossale, quello della città ucraina di Prypiat, abbandonata a seguito del disastro nucleare di Chernobyl. Posseduto e illuminato dall’immagine della metropoli fantasma, la rappresenta centinaia di volte, come per fissarla in un tempo immobile o costruirla sempre da capo. Si innamora anche di Sophie Calle. La incontra in televisione, in una notte di febbre, sul canale ARTE. È affascinato dal fatto che non sembra nemmeno un’artista e che forse celi se stessa dietro quell’etichetta. La immagina allora a Prypiat, scolpita in mezzo alla foresta radioattiva, come un monumento senza pubblico, innalzato ai sassi e alle betulle. Poi si tatua la sua firma sul braccio, per dimenticarla per sempre, e scappa in Alaska da Paola Pivi.
Aceto si appropria anche di storie già scritte, o meglio di elementi, tracce, scenari che appartengono ad avvenimenti storici e a mondi d’invenzione precedentemente ideati. Nel 2014, torna su un episodio narrato da Walter Benjamin nel suo ultimo scritto, Sul concetto di storia (1942): durante la Rivoluzione di Luglio del 1830, in un dissacrante gesto simbolico, quasi a voler scardinare il continuum del tempo, i rivoluzionari parigini, “indipendentemente e contemporaneamente”, spararono contro gli orologi dei campanili1. L’artista riattiva l’aneddoto benjaminiano presentando una serie di orologi Alessi disegnati da Aldo Rossi nel 1993 – modello Momento –, forati in punti diversi, come fossero stati ripetutamente colpiti. Nel 2016, invece, dopo diverse sessioni di ascolto, ricrea il ruggito di Godzilla e lo fa risuonare tra le statue di marmo del Museo Pietro Canonica a Villa Borghese – il lavoro si intitola Modesty or Surprise. La traccia sonora del film di Spielberg esplode così sulle sculture di inizio Novecento, sulle battaglie e sulle scene cristiane, inaugurando un dialogo allucinato in cui salta ogni cronologia ed emerge in primo piano l’assurdità della connessione.
Che rapporto intrattengono gli universi finzionali di cui si serve l’artista e i lavori che crea? In che relazione si pongono questi due momenti ideativi? Addentrarsi nel lavoro di Aceto significa navigare drammaturgie galleggianti e instabili, che determinano, di volta in volta, significati e forme degli oggetti che accolgono. Nei suoi progetti più recenti quest’attitudine è ampliata, o per meglio dire estesa, nello spazio-tempo dell’esposizione. L’artista pensa la mostra come il luogo in cui verificare l’ipotesi di una “correzione del mondo”. Una correzione tutta giocata sullo spostamento del linguaggio artistico, che dal livello della rappresentazione allegorica accede a quello della presentazione metonimica. Se l’allegoria “è sempre fuga e mistica del significato”, come scrisse Achille Bonito Oliva a proposito dell’opera di Gino De Dominicis, “e quindi distanziamento dalla fisicità a favore di una teatralità che garantisce lo spettatore dell’essenza rassicurante di due piani: la finzione dell’arte e la realtà della vita”2, nella presentazione metonimica questi due piani diventano irriconoscibili, si mescolano, e gli elementi in gioco concorrono a definirsi alla luce di una compresenza concreta.
Attraversando gli ambienti di Aceto ci confrontiamo con “mondi possibili” – ovvero con modi in cui avrebbe potuto essere il nostro mondo – in cui la differenza ontologica tra noi e le cose risulta radicalmente appiattita. I suoi oggetti sembrano possedere l’inquietante silenzio di presenze reali, vivono il nostro medesimo spazio, eppure, sono legati a universi finzionali distanti – assurgono allo status di “personaggi”.
Nella personale del 2016 alla galleria parigina Bugada & Cargnel, “Everyone Stands Alone at the Heart of the World, Pierced by a Ray of Sunlight, and Suddenly It’s Evening” – un titolo programmatico, che riprende i versi di Ed è subito sera di Salvatore Quasimodo e si pone come una sorta di protocollo dell’esposizione – il centro della scena è occupato da un’enigmatica figura seduta, The Thinker (2016), con la faccia allungata e le mani poggiate sul viso, illuminata da due faretti che ne proiettano l’ombra in entrambe le direzione. Si tratta della riproduzione ingrandita di una statuetta del tardo neolitico, collocabile tra il 5200 e il 3500 a.C., scoperta dall’artista durante le ricerche sulla storia culturale e antropologica della città di Pripyat, che lo hanno portato a indagare la civiltà dei Cucuteni-Trypillian. The Thinker si staglia nello spazio espositivo come l’esemplare modello di una temporalità impazzita. Realizzato a seguito di scansioni 3D dall’originale e riprodotto da un robot della UCIF Reverse Engineering, è circondato da scenografiche porte che conducono a storie diverse: S.L.A.V.1 (2015) è una quinta teatrale che rappresenta l’entrata della galleria di Torino dove l’artista ha esposto per la prima volta, Loyal Sauce B.C. – Noisy Whitish A.D. (2016), invece, è una tenda lamellare in PVC semitrasparente, che dà accesso a un nuovo ambiente in cui è installata la replica di una finestra orizzontale della Mistery House di Sarah Winchester.
Le mostre personali di Aceto, inoltre, sembrano sempre mostre collettive. E non solo perché l’artista vi include spesso opere di altri autori, ma anche perché ripropone lavori o narrazioni già attraversate in una fase diversa della sua carriera3. In Kevin (2020), il suo ultimo progetto espositivo, concepito per gli spazi del Kunst Raum Riehen di Basilea, recupera e amplia una serie di fotografie iniziata nel 2009, intitolata “Fabian Marti” (2009-2020)4. Il lavoro – portato avanti mediante una metodologia già sperimentata nei progetti su Sophie Calle e sulla città di Pripyat – è incentrato sulla figura di un artista svizzero, Fabian Marti appunto, un artista con cui Aceto ha avuto soltanto qualche breve conversazione e di cui non ha mai approfondito il lavoro. Interpretato in quanto “stereotipo di se stesso”, sulla falsa riga del concetto di “standard” sviluppato da Emilio Prini, Marti è “tradotto” in immagini che risultano da una serie di ricerche effettuate su Google. Se nella prima versione dell’opera Aceto si concentra soprattutto sul volto dell’artista – un volto che sembra perfettamente incarnare il suo ruolo: barba incolta, capelli lunghi –, nella seconda, mostra una sequenza di immagini legate “probabilmente” ai suoi lavori, o a quelli di altri artisti con cui ha esposto, o forse indicizzate dal motore di ricerca per ragioni che non ci è dato conoscere. Si vedono un paio di mocassini di cuoio, una testa di cavallo che sbuca da montagne rocciose, il numero otto, l’installation view di una mostra e dei gusci di cozze che sembrano fiorire da un piedistallo in cemento.
La serie di fotografie Fabian Marti ci restituisce alcuni nodi essenziali della pratica artistica ed espositiva di Aceto. Poiché si innesta su un’operazione di “assottigliamento denotativo” che chiama in causa due metodi di lavoro assolutamente centrali nell’opera dell’artista. Il primo è quello che riguarda le “corrispondenze imperfette” tra le storie di cui si serve e i lavori che successivamente produce: a eccezione di The Thinker – sul quale comunque opera un ingrandimento – gli oggetti di Aceto non sembrano precisamente aderire alle narrazioni che li hanno portati alla luce. È come se vi si accordassero sulla base di una sfasatura, su un principio di traslazione mancata: gli effettivi legami tra i due momenti generativi sono spesso impercettibili, raramente rilevabili. Si prenda ad esempio “Sequoia 07”, la mostra allestita presso l’Istituto Svizzero a Milano nel febbraio 2019. L’artista la elabora rievocando un ricordo d’infanzia, un racconto di sua nonna, “la storia di alcuni giovani scortati – attraverso un tunnel di alberi – da una donna su un cavallo bianco con Sequoia, il suo modello d’auto preferito, una Toyota del 2007”. Eppure, il paesaggio plastico che ci troviamo di fronte difficilmente corrisponde a questa visione. Sembra piuttosto trasfigurarla, in una serie di moduli scultorei e disegni che ne evocano soltanto alcuni frammenti.
Il secondo metodo, invece, è quello della “coabitazione forzata” tra opere che appartengono a scenari diversi, ma che sono tuttavia tenute assieme, nel medesimo spazio-tempo d’esposizione, da un assemblaggio “para-curatoriale” che tende a connetterle. Nulla è in se stesso nelle mostre di Aceto. È come se tutti gli oggetti fossero dotati di protrusioni, di eccedenze, che fanno dipendere la loro identità sia dall’iscrizione “sfalsata” in quei mondi narrativi precedentemente descritti, sia dal rapporto con gli altri oggetti presenti.
Sebbene possano apparire criptiche, oscure, autosufficienti, queste due operazioni non seguono quell’autonomia sintattica propria di una certa pratica concettualista, quanto la materializzazione, invece, di un tessuto narrativo che espone l’oggetto artistico al gioco delle temporalità e lo inserisce all’interno della costellazione aperta del transito. È in questa zona di tensione che si condensa gran parte del lavoro di Aceto. È su questo limite, su questa possibile perdita di controllo – sulle crepe e sulle fratture che derivano dalle “sfasature” e dalle “coabitazioni forzate” – che si verifica l’originale fenomeno del transito. Un processo, che come ha scritto Mario Perniola, “va dallo stesso allo stesso”, che fa valere la “differenza di ogni realtà rispetto a se stessa, il fiorire della sua virtualità, del suo divenire, delle sue metamorfosi”5. Le esposizioni dell’artista permettono allora un’esperienza spostata dell’oggetto, che si consuma in un territorio differente da quello ordinario, giacché spalancata su un campo immaginativo non pienamente riconducibile all’incontro con l’opera.
Nonostante risultino sensuali, accattivanti, sicure, quasi pop, le forme di Aceto costituiscono un “ostacolo” nello spazio dello spettatore: conservano un alone di incommensurabilità, guadagnato non solo dall’immissione in scenari e racconti, ma anche da quella singolarissima combinazione tra forme animali, elementi architettonici o urbani e prodotti di consumo. Si pensi a Gutter-Gargoyle (2019), risultato dell’ibridazione tra un idrante, una grondaia e un non meglio identificato animale marino, o a Fin-Backpack (2020), uno zaino equipaggiato con delle pinne, o ancora ai due lavori Grass snake digesting Bertrand Lavier (transitional sculpture) (2019) e Common boa digesting Carla Accardi (transitional sculpture) (2019), la cui forma ricorda quella di una marmitta automobilistica, ma anche quella di due serpenti nell’atto della digestione.
Pur non agendo su una frantumazione dell’istanza iconica, l’artista sottrae le forme a un immediato riconoscimento. Accomunate da una conturbante giocosità, vivono in quanto segni evidenti delle sue stesse ossessioni. Si ritirano, sono costantemente altrove. Si vanno attestando su una perdita di definizione. O ancora, vanno costituendosi per accostamenti tra materiali assolutamente eterogenei. Come nel caso della serie dei gargoyle che sputano popcorn – presentati nel 2019 alla galleria Lange + Pult di Zurigo –, o del corno che poggia su due camicie blu “formali” – CENTAURE (2019) –, o della cravatta di maglia tagliata sul fondo – la stessa che appare nel video Fshh Fshh (2020), ripetutamente sfiorata da mani maschili – e appesa a un telescopio, Alba (2019). In un processo che viene ribaltato in Bocca con matita (2020), dove l’artista gioca sull’illusione della materia accoppiando due oggetti di bronzo che dissimulano la loro sostanza.
Così, mentre sulla scia di soluzioni “minimaliste” questi lavori sembrano “risituare all’esterno l’origine del significato dell’opera”6, siccome mirano a definire fenomenologicamente uno spazio, dall’altra parte descrivono un movimento rivolto all’interno del proprio tessuto, che afferma l’autonomia della propria differenza in virtù di quei “mondi possibili” cui si accompagnano. Aceto riconduce gli oggetti al centro del loro segreto e, contemporaneamente, li espone al pericolo dello spazio e del tempo. Assieme ad altri oggetti, assieme ad altre storie.
Infine, ce li fa sentire come inarrivabili mete, luoghi inaccessibili e inabitabili. Non ospitali. Quasi malinconici. Come quelle immagini che ogni tanto schizzano fuori dalle sue interviste: “un’automobile scomparsa che sale su una rupe in una giornata di sole”; “mattinate d’inverno a Losanna in cui mi sentivo l’unico rimasto a Pripyat un anno dopo l’esplosione nucleare”; “autostrade sulle quali si affacciano gigantesche case popolari abbandonate alternate a giganteschi monumenti”7.
E se questo processo è fondamentalmente legato alle sue due operazioni e alle diverse “tensioni” presenti in mostra, quando i suoi oggetti sono esposti singolarmente sembrano conservare una malinconia che si affaccia tutta al ricordo. Come le pinne di legno o i gargoyle che spuntano qua e la nelle collettive o nelle fiere d’arte, quasi tristi, fuori contesto, strappate via da quei “mondi possibili” nei quali vivevano in maniera imperfetta.
Alfredo mi ha scritto che adesso ha un piccolo problema alla lingua. Negli anni, spingendo i denti verso l’esterno, ad ogni deglutizione, si è provocato un fortissimo ritiro delle gengive. Sta quindi facendo degli esercizi di ginnastica orofacciale con la logopedista Laura Vitrotti. Alfredo crede che abbiano un qualcosa di estremamente estetico, formale e seriale. Dice che gli procurano una sensazione molto simile a quella del disegno. In uno di questi, deve far vibrare le labbra come per fare pernacchie (bruuuuuuuum).