Il “maestro dei maestri”, come lo definì Hugo Pratt, o “l’Accademia”, per Lorenzo Mattotti, Dino Battaglia non sempre ha avuto, da parte del grande pubblico, il riconoscimento che sarebbe stato necessario tributargli. Eppure, la sua importanza per l’evoluzione del medium è paragonabile solo a quella di pochi altri.
Le ragioni di questo – parziale – oblio, sono rintracciabili in una pletora di motivi. Battaglia, ad esempio, non ha mai legato il proprio nome a un personaggio ricorrente.[i] Inoltre, pur nel contesto di una carriera variegata, la sua opera rimane nota soprattutto per i molti adattamenti di opere letterarie. Questa dedizione alla trasposizione ha ingenerato l’equivoco per cui l’“autorialità” di Battaglia[ii] fosse sottomessa a tale matrice. Equivoco rafforzato anche dal pregiudizio che buona parte degli operatori del settore nutrivano nei confronti del suo lavoro – punto di vista, questo, riassunto efficacemente da Sergio Bonelli quando descrive Battaglia come: «Un illustratore un po’ prepotente per noi fumettari, perché metteva in secondo piano la storia».[iii] Quest’etichetta di illustratore, mal sopportata da Battaglia, non solo accompagnerà tutta la sua carriera, ma contribuirà a influenzare la percezione del suo lavoro.
Nato a Venezia nel 1923, Battaglia si avvicina al mondo del disegno da autodidatta. Opponendosi alla famiglia che lo vorrebbe professore, il giovane Dino spesso salta la scuola per esplorare la propria città, passando poi la notte a riprodurre quadri, scorci e monumenti di nascosto. Le atmosfere lagunari, gli scorci dai contorni resi incerti dalla nebbia, i vicoli labirintici e l’aria caliginosa della città dei Dogi costituiranno un substrato costante della sua opera, rintracciabile nei grigi brumosi, negli sfondi graffiati, nei contorni indefiniti.
I suoi inizi sono da perfetto “fumettaro”, per dirla con Bonelli. Il suo esordio[iv] avviene sulle pagine della rivista Asso di Picche.[v] Battaglia si alterna infatti con Pratt ai disegni della serie avventurosa Junglemen. Mentre Pratt, però, ha già piena padronanza del mezzo, Battaglia, abituato all’amato pennino, si dimostra a poco agio con il pennello, strumento prediletto dai fumettisti almeno già da una quindicina anni, e produce tavole che non reggono il confronto con quelle del collega.[vi]
Per arrivare al Battaglia maggiormente riconoscibile, bisogna fare un salto in avanti di qualche anno, quando al pennino inizieranno ad affiancarsi la lametta, che permette la creazione di caratteristici neri graffiati, e la spugna, utile alla riproduzione di macchie irregolari; e quando, inoltre, alla gabbia rigida derivata dallo schema della striscia si sostituiranno delle tavole maggiormente organiche, non più schiave della frammentarietà sequenziale. L’opera di svolta è sicuramente il Moby Dick (da Mellville, 1967), in cui però la sperimentazione dell’autore solo accidentalmente si concentra sull’insieme dello spazio narrativo della tavola inteso come unicum visivo narrante ed equilibrato. La griglia non è ancora esplosa, le figure restano prigioniere nelle vignette e l’impostazione della pagina è ancora molto simile a quella classica dei fumetti avventurosi dell’epoca. Sono, però, già evidenti in questo periodo (ad esempio in 5 su Marte, 1967) molti altri tratti distintivi di un autore complesso e poliedrico: l’amore per la caricatura e per l’illustrazione (Giuseppe Porcheddu, Louis Legrand, ecc.); l’abbandono della tridimensionalità a favore di immagini piatte; il montaggio “cinematografico” delle vignette; il superamento del nero pieno a favore di un grigio sfumato; la discontinuità netta dello spessore del tratto.
Sul finire degli anni Sessanta i limiti imposti dal Corriere dei Piccoli, su cui Battaglia aveva pubblicato gran parte delle proprie opere, sono ormai asfissianti. È infatti su riviste come Linus e Sgt Kirk, destinate a un pubblico adulto e più sofisticato, che l’autore realizza i suoi lavori migliori. Se si può affermare, con tutti i distinguo possibili, che il segno fumettistico è sovente autoreferenziale, cioè che lo stile del medium si è evoluto principalmente dall’osservazione dei modelli fumettistici precedenti, Battaglia compie in questi anni uno scarto notevole rispetto alla tradizione. Le sue tavole infatti, risentono esplicitamente dell’influsso combinato di una grande varietà di influenze. Sono tavole “Wunderkammer”[vii], in cui possono convivere elementi derivati dal Liberty, dal cinema espressionista, dalla pittura del Secessionismo Viennese, dal cinema americano, dal fumetto “nero” italiano contemporaneo, dalla pittura medievale, da quella simbolista francese, dalle stampe ukiyo-e, da Gustave Doré e dal Little Nemo di Winsor McCay – solo per fornire un elenco parziale e incompleto. Influenze, queste, che mai si risolvono però in sterili citazioni, ma che vanno a comporre l’intreccio di queste “tavole delle meraviglie”.
Non a caso quello di Battaglia è uno stile che si potrebbe definire, con un’ulteriore analogia, “antiquario”, caratterizzato da grigi che stendono su ogni cosa una patina polverosa che astrae l’opera da una precisa contestualizzazione storica. Un risultato frutto di un approccio al lavoro né semplice né immediato, considerato il sovrapporsi continuo di linee, sfumature, ombreggiature, graffi e tamponature che concorrono ad un insieme quasi sinestetico, tipico di un autore noto per il suo perfezionismo.
Fra i molti fumetti di Battaglia, le riscritture delle opere di Edgar Allan Poe sono fra le più riuscite.[viii] Il Battaglia che adatta Poe è ormai un autore nella pienezza della sua maturità artistica, capace di un eclettismo grafico che si sposa perfettamente con la vasta gamma tonale dei racconti dello scrittore statunitense. Nel Re Peste (1968), troviamo rivelata tutta l’ampiezza del suo spettro espressivo: la verve caricaturale, debitrice dell’amato Ronald Searle, con cui ritrae i due protagonisti in fuga e quella a là Grosz che serve a descrivere i personaggi che si stringono intorno alla corte del Re Peste; gli sfondi caliginosi, tamponati sul bianco della pagina; il lettering usato in senso eloquente e coerentemente grafico (quest’ultimo, uno dei segni maggiormente distintivi – e meno analizzati – dell’autore). Finalmente le tavole si liberano dalla schiavitù della gabbia, diventando oggetti unitari, in cui gli equilibri fra i bianchi e i neri sono attentamente pesati per soddisfare uno sguardo generale, semi-pittorico, ma al contempo spazi narrativi prettamente fumettistici.
Così ne La caduta della casa degli Usher (1969) l’approccio più “tradizionale” delle prime tavole cede presto il passo a un frenetico accumularsi di invenzioni e impressioni di segno prettamente antinaturalistico: sovrapposizioni, scontornature, ripetizioni ritmiche, fino all’esplosione – quasi un urlo – rappresentata dalle due tavole conclusive. La caduta è uno degli adattamenti di Battaglia che maggiormente presta il fianco alle accuse di deriva illustrativa. Il peso della narrazione verbale nell’economia complessiva dell’opera è sicuramente notevole ed è possibile ottenere una comprensione del narrato soddisfacente senza rivolgersi alla componente grafica. Eppure, di superfluo, qui, c’è ben poco. Anche se, al di là della loro fisica compresenza sulla pagina, parole e immagini sembrano reciprocamente indipendenti, sarebbe sbagliato considerare le prime come un correlato illustrativo delle seconde.
Si guardi la seconda tavola di questa storia (p. 24)[ix]. La voce narrante recita: «Lo guardai con spavento e pietà!! … Non riuscivo a riconoscere in quel volto spettrale il mio vecchio compagno d’infanzia…». Subito sotto queste parole, nella vignetta che chiude la tavola, vediamo l’oggetto di tale descrizione: un uomo dal volto bianchissimo, quasi reso in negativo, dagli occhi minuscoli ma al tempo stesso spalancati a dismisura in un muto sconvolgimento. Questa vignetta certamente illustra ed espande la descrizione verbale dell’uomo data nella didascalia, ma nella narrazione fumettistica di Battaglia svolge anche un altro ruolo: fermare un racconto fino a questo punto dominato dalle parole. Ha una funzione ritmica. A dispetto della sua dimensione e della sua collocazione è il punto focale su cui lo sguardo si concentra e si ferma più a lungo prima di proseguire. Non è solo la conclusione dell’attesa generata dalle altre vignette, ma è anche sovrastata fisicamente da quest’ultime, da cui si distacca anche per il brusco stravolgimento dei rapporti fra aree chiare e aree scure.
L’intera tavola, l’intera casa, opprime l’uomo in senso sia psicologico che fisico. Un risultato ottenuto attraverso anche un’operazione di sottrazione: una campitura bianca (il volto dell’uomo) su un fondo nero, rotto solo da alcune linee verticali, in contrasto con la profusione di ombre e tratteggi che ha caratterizzato le vignette precedenti. Un apice che contrappuntisticamente viene raggiunto attraverso, come detto, una sottrazione, un togliere, una riduzione, un lavorare apparentemente di sordina.
Nella tavola di apertura di La caduta (p. 23) la casa ci viene mostrata per la prima volta attraverso una lunga vignetta verticale che inquadra un sottile crepa sulla facciata della stessa. Battaglia ripropone più volte vignette della stessa forma oblunga per sottolineare l’approssimarsi della fine rovinosa della vicenda. Nell’ultima coppia di tavole (pp. 30-31), Lady Madeline compare in una cornice allungata; così come la luna che fa capolino fra le rovine della magione ormai distrutta. La verticalità funerea di queste vignette viene usata a contrappunto delle altre presenti nelle tavole, per lo più di orientamento orizzontale. Si tratta di vignette terrorizzanti che, a dispetto della profusione di parole, sono più “sonore” di tutte le altre. Notiamo l’urlo muto di Lady Madeleine, il quale però risuona forte nelle orecchie interiori del lettore. Qualche pagina dopo, con la stessa tacita forza, compare la Luna. Fa capolino attraverso la crepa della casa. Lapidaria – in molti sensi – nella sua staticità, rimanda a orrori innominabili che i convulsi e precipitosi avvenimenti rappresentati nelle vignette adiacenti non sono minimamente in grado di evocare con la stessa, incisiva, forza. Anzi, la loro natura qui “illustrativa”, ne aumenta la forza per contrapposizione.
Battaglia muore, appena sessantenne, nel 1983. La sua eredità è però viva nel segno degli autori che ne hanno dichiarato o ne dichiarano l’influsso. Fra i molti basti fare i nomi di Sergio Toppi, Lorenzo Mattotti, del quasi-epigono Corrado Roi e di Giovanni Freghieri. Le sue storie sono state di frequente ristampate, anche se mai in maniera organica.[x] Dal 2016 la casa editrice NPE sta ripubblicando l’intero corpus dell’autore. Attualmente questa è l’edizione cui fare riferimento. Più recentemente anche la Editoriale Cosmo ha dato alle stampe una serie di volumi, economici, in formato Bonelli, dedicati all’autore. Il rinnovato interesse editoriale e critico intorno alla sua figura, nonché la modernità delle sue scelte grafico-narrative, ancora oggi prese a esempio e imitate, testimoniano, oltre all’eredità costituita dall’opera di Battaglia, l’estrema originalità e consapevolezza del mezzo di un autore ostinatamente in anticipo sui tempi.