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22 Ottobre 2015, 12:29 pm CET

Gabriele De Santis di Julia Trolp

di Julia Trolp 22 Ottobre 2015
Self-portrait, 2009. Altoparlante, amplificatore, lettore MP3, t-shirt, polistirene, 81 x 53 x 31 cm.

 

Self-portrait, 2009. Altoparlante, amplificatore, lettore MP3, t-shirt, polistirene, 81 x 53 x 31 cm.
Self-portrait, 2009. Altoparlante, amplificatore, lettore MP3, t-shirt, polistirene, 81 x 53 x 31 cm.

Julia Trolp: La tematica della “youth culture”, più precisamente quella della “rave culture”, sembra legare come un filo rosso la maggior parte dei tuoi lavori artistici. Quale significato e importanza ha il fenomeno del rave o del free party per te?

Gabriele De Santis: “Sotto cassa tutto passa”. Ciò che più mi interessa è l’illegalità dentro la quale questo fenomeno si è sviluppato sin dagli anni Ottanta. Il rave è una struttura ben definita con i suoi codici, le sue regole e un’estetica ben delineata (anche se non priva di sfumature). Da sempre mi piace pensare l’arte come uno strumento romantico di decifrazione dell’era contemporanea e assistere alla performance di centinaia di persone ridotte a un puro stato vegetativo, perse in una foresta, ma tenute insieme da 20 Kilowatt di suono. È un’esperienza molto contemporanea.

JT: I tuoi lavori consistono spesso di elementi visibili, ma anche udibili: oggetti, fotografie e disegni da un lato, tracce di musica elettronica, suoni registrati e poi trasformati dall’altro. Self-portrait del 2009 ne è un perfetto esempio. Come è nata questa scultura “sinestetica”?

GDS: È vero, ho sempre pensato che la fruizione di un lavoro debba coinvolgere tutti i sensi di un individuo. Più sensi sono coinvolti più è facile emozionare. Nel caso dell’autoritratto volevo auto-disegnarmi davanti allo specchio, ma non ci sono riuscito. Così mi sono auto-ricostruito attorno a un subwoofer che emette vibrazioni che seguono il ritmo del battito del mio cuore. Come ogni artista ho avuto l’impulso di autocelebrare qualcosa che non ha nulla da essere celebrato.

JT: In alcuni lavori più recenti impieghi anche il fuoco. Quello che normalmente è considerato distruttivo diventa per te parte del processo creativo. Come mai hai scelto questo elemento?

GDS: Il fuoco ha avuto finora una duplice valenza nel mio lavoro. Da una parte è un utile strumento per cancellare ciò che è impossibile ricordare. Dunque, bruciando una fotografia provo a mettere in evidenza la contraddizione che una testimonianza del passato porta con sé nel momento stesso in cui essa non riesce a decifrare emozionalmente un determinato istante o una precisa emozione non più attuale. Dall’altra, il fuoco lascia una traccia indelebile, un’ustione permanente da cui è impossibile sottrarsi e con cui è necessario fare i conti nel presente e nel futuro. Creazione, dunque, come risultato di una trasformazione/transizione. Distruggere definitivamente qualcosa, emozionalmente parlando, è impossibile.

JT: Ti sei trasferito circa un anno fa da Roma a Londra. Un cambiamento di questo genere spesso porta con sé anche una modifica del lavoro o dell’approccio artistico. È successo anche a te o continui a fare quello che facevi già prima, nella capitale italiana?

GDS: Sostanzialmente sì. Le dinamiche sono le stesse, ma tutto è molto più incoraggiante.

Julia Trolp è critica d’arte e curatrice. Vive e lavora a Grottaferrata (RM).

Gabriele De Santis è nato nel 1983 a Roma. Vive e lavora a Londra.

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