Una delle prime donne a ottenere una laurea in architettura presso il MIT – Massachusetts Institute of Technology di Chicago, culla dell’architettura modernista, nel 1890 si ritirò dalla professione in seguito a un episodio di bullismo subito dalla committenza durante la realizzazione di un progetto. L’opinione pubblica reagì alla vicenda liquidando rapidamente la questione e il successivo ritiro della giovane architetta dalla professione, quale prova che una donna non fosse in grado di gestire un progetto pur essendo in grado di idearlo.
Questo è solo un esempio di un pregiudizio più generale, che anche dopo un secolo di lotte femministe e LGBT, valorizza ancora la razionalità a scapito dell’emozione, della cura, della vulnerabilità, attribuendo la prima al genere maschile. La differenza è stata persino estesa ad alcuni elementi costruttivi architettonici, assegnando di fatto un “genere” a oggetti inanimati come capitelli, colonne, tappeti e elementi d’arredo.
L’architettura, nell’accezione di Leon Battista Alberti, è una pratica di astrazione e comporta l’ordinamento logico di informazioni varie e complesse da “proiettare” in disegni e misure. L’idea di architettura come pratica specifica del dare forma all’habitat umano, come una dimensione che ha a che fare con la cura, è emersa per certi versi esotericamente, soltanto con il modernismo.
La pratica dell’abitare, a lungo considerata un’arte femminile, è stata relegata in modo leggero e superficiale sulle pagine di riviste prettamente femminili, come La Casa Bella – che sotto la direzione di Giuseppe Pagano diventa Casabella e inizia a fondere i diversi scopi della disciplina architettonica in un insieme indefinito, non dichiarato e in qualche modo incoerente.
Potremmo affermare che le idee che hanno sostenuto e ispirato il modernismo richiedevano intrinsecamente una revisione dei tabù di genere: ad esempio a Vienna la generazione di Joseph Frank, Rudolf Schindler e successivamente quella di Bernand Rudofsky, comprese che un approccio modernista all’architettura avrebbe dovuto preoccuparsi principalmente della qualità della vita e dello spazio. Una volta che le questioni relative alla costruzione e all’assemblaggio fossero state in gran parte assorbite e cannibalizzate dall’industria e standardizzate si sarebbero quindi occupate dell’incarnazione e della qualità dei materiali, abbandonando la preoccupazione per le invenzioni formali.
Come tale, l’architettura modernista avrebbe dovuto superare implicitamente l’impasse di genere, e andare oltre le categorie del maschile e femminile per come erano state considerate nelle precedenti formulazioni disciplinari. È interessante notare che le mogli di Rudofsky e Schindler erano intellettuali affermate che influenzarono profondamente il pensiero e il lavoro dei rispettivi partner dando vita a vere e proprie collaborazioni, ma i loro contributi sono stati per gran parte respinti o sottovalutati, confermando ancora una volta il pregiudizio verso i contributi femminili alla pratica architettonica.
Oggi, con i progressi della neurobiologia, dell’endocrinologia e degli studi di genere, possiamo argomentare più precisamente la revisione della teoria dell’architettura storicizzata, i suoi pregiudizi di genere ancora persistenti e la misoginia intrinseca.
Per superare la questione dei generi in architettura potremmo iniziare a parlare di un’architettura androgina: allo stesso tempo concettuale ed energetica, incarnata ed emotiva, astratta e accogliente.