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348 Mar-Apr 2020, Recensioni

13 Marzo 2020, 9:00 am CET

“Parabasi” Galleria Tiziana Di Caro / Napoli di Maria Teresa Annarumma

di Maria Teresa Annarumma 13 Marzo 2020
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“Parabasi”. Veduta della mostra presso Galleria Tiziana Di Caro, Napoli, 2020. Fotografia di Danilo Donzelli. Courtesy Galleria Tiziana Di Caro, Napoli.
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“Parabasi”. Veduta della mostra presso Galleria Tiziana Di Caro, Napoli, 2020. Fotografia di Danilo Donzelli. Courtesy Galleria Tiziana Di Caro, Napoli.
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“Parabasi”. Veduta della mostra presso Galleria Tiziana Di Caro, Napoli, 2020. Fotografia di Danilo Donzelli. Courtesy Galleria Tiziana Di Caro, Napoli.
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“Parabasi”. Veduta della mostra presso Galleria Tiziana Di Caro, Napoli, 2020. Fotografia di Danilo Donzelli. Courtesy Galleria Tiziana Di Caro, Napoli.
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“Parabasi”. Veduta della mostra presso Galleria Tiziana Di Caro, Napoli, 2020. Fotografia di Danilo Donzelli. Courtesy Galleria Tiziana Di Caro, Napoli.

La parabasi nella commedia greca è quell’intermezzo in cui il coro si rivolge direttamente al suo pubblico – uscendo per un momento dalla narrazione – commentando le azioni svolte o sollevando riflessioni sulle stesse. Questo arco temporale, che crea una vera e propria cesura, definisce i diversi intervalli presenti nella collettiva “Parabasi” presso la galleria Tiziana Di Caro a Napoli.
Un esempio di questo intervallo è visibile ad esempio in Single Bear with Shopping (Friedrichstraße) (2019) di Timothy Davies – un “teddy bear” dall’aspetto borghese, quasi la rappresentazione di un compratore compulsivo (porta in mano un paio di shop bags).

Nonostante il testo che accompagna la mostra sembrerebbe sollecitare un esercizio di percezione visiva – citando le teorie di Konrad Fiedler – sono le opere stesse a spingere lo spettatore verso una personale parabasi e una lettura della mostra che incontra prospettive storico-sociali.
Una di queste è la particolare sensibilità della gallerista verso le artiste donne, evidente qui dalla presenza di tre opere di Antonietta Raphaël; in particolare la tela Ermafrodito (1937), una scultura che attraverso la materia sofferta e frammentata restituisce una forte tensione che simboleggia la ricerca verso l’affermazione di un’identità.
Alle spalle della scultura, le due tele di Matthias Schaufler della serie Orange Night in Naples (2019), dialogano con quest’ultima attraverso connessioni non esplicite. Allo stesso tempo le tele di Megan Francis Sullivan ci riportano alla riflessione sul ruolo della forma che ha accompagnato per sette anni Paul Cézanne nel ricercare la perfetta unione fra natura e corpo umano in Les Grandes Baigneuses (1898).
Al contempo, due artiste ci riportano alla complessità dell’affermazione femminile e non solo: Rosa Panaro, membro del Gruppo XX attivo negli anni Settanta, espone qui tre disegni che raffigurano gli archetipi delle sue sculture, ma è nell’opera in argilla Parthenope (1977), che si coglie la centralità sociale della donna – che vede nel mito della fondazione di Napoli, una sua celebrazione. Le tele di Betty Bee, Senza Titolo (2015 e 2017) invece narrano una visione della femminilità più contemporanea, a tratti sofferente e ribelle, dove la disgregazione leggibile nelle tele è paragonabile allo smembramento identitario che ha caratterizzato l’esistenza della donna nella società. Se nella rappresentazione l’immagine è contenuta, il limite è solo apparente rispetto alla inarrestabile corsa a una ricostruzione identitaria.
Infine passando per la scultura Studio per una Salomè in Piazza (2017), di Effe Minelli ci torna alla mente un piccolo paesaggio di Guido Casciaro Fontelina (1947) – posto all’inizio del percorso espositivo – che ci fa rientrare nei ranghi, e funziona come una delle tante parabasi in questa mostra: ci ricorda che l’arte alla fine parla sempre della vita e parla sempre alle persone.

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