Los Angeles, I’m Yours cantava il gruppo indie folk rock dei Decemberists in una struggente ballade del 2003, agrodolce dichiarazione d’amore alla città. E proprio su Los Angeles concentra la sua attenzione Andrew Berardini che, attraverso la collettiva negli spazi di Brand New Gallery, ne delinea un ritratto che rifugge hollywoodiani cliché e contriti immaginari urbani per insinuarsi nei suoi luoghi più intimi, interstiziali, e captarne rabdomanticamente trasformazioni, energie latenti e sommovimenti, nume tutelare Charles Bukowski. Emerge una città in cui gli spazi fisici si fanno spazi mentali, in cui la perdita di un centro non è fallimento ma apertura a esponenziali potenzialità. I percorsi non sono lineari, l’imprevisto è contemplato, il perdersi e bighellonare del flâneur sono una risorsa creativa. In queste personalissime psicogeografie si muove la comunità artistica losangelina. Ovviamente, la selezione degli artisti in mostra non vuole rappresentare una mappatura esaustiva ma una suggestione, un racconto silenziosamente anarchico che procede vivacemente per ellissi e anticipazioni, scarti e accelerazioni. Comune denominatore sembra essere una disincantata leggerezza, il disinvolto scivolare da una tecnica all’altra, una commistione di linguaggi e di registri capace di farsi carico, con ironica freschezza, del peso delle seminali esperienze e dei fermenti che hanno attraversato e infiammato la città, dalla Beat Generation all’epocale mostra “Helter Skelter: L. A. Art in the 1990s” al Museum of Contemporary Art (con, fra gli altri, Raymond Pettibon, Mike Kelley e Paul McCarthy), passando per il “Finish Fetish” di John McCracken e le adrenaliniche performance di Chris Burden. Una città, appunto, in cui si stratificano oggetti e memorie, congelati in un’eterna archeologia del presente dalle resine di Jedediah Caesar, o in cui i ricordi affiorano con il recupero di un magico primario e popolare, come nelle opere dolcemente kitsch di Liz Craft. Gli strambi personaggi di Ryan Trecartin animano un idiosincratico teatro dell’assurdo nell’era del 2.0 e sembrano farsi beffe degli iconici eroi just-for-one-day di Joel Kyack e Jonas Wood, delicato slittamento, per mezzo della pittura, da una memoria personale a una collettiva. Nei suoi lavori David Ratcliff accumula bulimicamente e compulsivamente immagini pescate da Internet di cui lascia però solo una fantasmatica ed evanescente traccia che introduce a molteplici possibili narrazioni.Mentre Kara Tanaka con i suoi cocoon pone in cortocircuito uomo, macchine e architetture, Anthony Pearson fa dialogare scintillanti sculture di straordinaria eleganza formale con fotografie dalla notevole potenza scultorea, generando scambi fra bidimensionalità e tridimensionalità che portano a un ripensamento delle forme e dei volumi. Analogamente avviene negli improbabili vasi antichi di Liz Glynn, rivisitazione unmonumental della classicità, o nel gesto nonchalant di Justin Beal che mina alla radice la rigorosa purezza formale del Modernismo e della Minimal Art.
Un’immagine che degnamente aiuta a riassumere questa pluralità di voci e visioni è l’opera .And Milk di Brian Kennon: un feticistico archivio, più o meno verosimile, più o meno nostalgico, di tutte le pubblicazioni sull’arte a Los Angeles. Ancora una volta, la città riflette su se stessa per essere subito pronta a ripartire propositivamente dalla sua storia appena trascorsa.