In questi ultimi mesi claustrofobici mi è capitato più volte di ripensare a una riflessione di Emanuele Coccia sullo spazio domestico, che culmina con questo paradosso: ‘Si può morire per eccesso di casa’1. In un’Italia che riapre nell’unico modo per ora possibile – ovvero spostando all’esterno il baricentro della socialità, si fa strada una certa necessità di riflettere sulle modalità dell’abitare, e in fondo anche dell’esporre, in ambienti chiusi: il nostro rapporto con lo spazio privato e pubblico si è trasformato profondamente, con un riflesso inevitabile sulla nostra relazione con l’arte contemporanea.
ArtCity, il programma istituzionale di mostre promosso ogni anno dal Comune di Bologna, punta quest’anno soprattutto sulla riscoperta degli spazi cittadini ‘nascosti’: per ospitare le mostre istituzionali del ‘Main Program’ sono stati scelti luoghi non convenzionali, con un particolare valore storico e artistico per la città, che se ne riappropria temporaneamente. Una prassi curatoriale non nuova, ma che assume oggi un significato diverso.
Fondamentale in questa edizione è poi l’attenzione (quasi) esclusiva alla scena italiana, declinata in un’indagine trans-generazionale: artisti esordienti e nomi decisamente affermati sono stati invitati a confrontarsi con la storia architettonica e urbanistica di Bologna. Eppure, una possibile chiave di lettura dell’intera manifestazione la offre l’unico artista straniero, Gregor Schneider, con la sua installazione ambientale Gregor Schneider visits N.Schmidt (in the former Galleria d’Arte Moderna di Bologna) presentata negli spazi dell’ex GAM, a cura di Lorenzo Balbi. L’opera, concepita nel 2017 per Skulptur Projekte a Münster, alla luce dei cambiamenti epocali del 2020 si carica di un nuovo significato: la ricostruzione delle stanze di un comune appartamento, che il visitatore è invitato a percorrere in solitudine, genera una serie di sensazioni contrastanti e ansiogene, riconducibili in parte alle riflessioni di Coccia sulla “violenza delle case”.
Anche l’intervento di Giorgio Andreotta Calò presso il Laboratorio degli Angeli somiglia alla violazione di uno spazio privato: un luogo di lavoro, in questo caso, che i gestori dello storico laboratorio di restauro aprono periodicamente a progetti artistici. In Ellissi, Andreotta Calò riattualizza un’installazione ideata nel 2018 ad Amsterdam, presso l’antica chiesa Oude Kerk. L’ambiente dell’ex Oratorio di Santa Maria degli Angeli si trasforma in una grande camera oscura, in cui la finestra e il lucernario sono rivestiti con una gelatina rossa che scherma la luce e permette di imprimere la carta fotografica in maniera completamente analogica. Un’operazione suggestiva che ad Amsterdam ha dato vita al ciclo “Annunciazione”, qui interamente riproposto, e che offre un’intensa riflessione sul luogo che la ospita.
Altro intervento strettamente site-specific è quello di Chiara Camoni presso Palazzo Bentivoglio, a cura di Antonio Grulli. Il lavoro dell’artista ha preso le mosse dal ritrovamento nei sotterranei del palazzo di una serie di materiali di decoro abbandonati, risalenti principalmente al XVI secolo. A partire da questo materiale, in gran parte in pietra, Camoni ha lavorato su alcuni punti dello spazio creando un’installazione permanente – che diventerà parte integrante del palazzo. Nel suo insieme, Ipogea (2021) somiglia a un poetico scavo archeologico in cui elementi dall’iconografia preistorica si mescolano con opere tipiche del linguaggio visivo dell’artista.
Un’architettura fortemente connotata ospita anche “NEG: suonare le pause”, progetto dedicato a Vincenzo Agnetti a cura di Luca Cerizza – allestito nel bellissimo Padiglione de L’Esprit Nouveau progettato da Le Corbusier nel 1923. Viene qui proposta, per la prima volta, la ricostruzione di un’opera che Agnetti brevettò e produsse nel 1970 con BrionVega. Si tratta di un rilevatore di pause, un registratore manipolato in modo da suonare negli intervalli di silenzio di un discorso, o di un brano musicale. Curiosamente andato perduto dopo un solo utilizzo pubblico – insieme a Gianni Colombo2 – il NEG viene ora ripresentato insieme a un’ampia documentazione, e a una serie di opere dell’artista sul tema della pausa, del vuoto rispetto al pieno. Parte integrante della mostra, infine, un video che documenta una serie di performance in cui alcuni musicisti sono stati invitati a utilizzare il NEG con musiche composte per l’occasione.
Splendida anche la location dell’intervento di Sabrina Mezzaqui, l’oratorio di San Filippo Neri: l’artista interpreta lo spazio in maniera quasi performativa, dedicandosi ogni mattina alla realizzazione, sempre diversa, di una grande decorazione pavimentale.
Palazzo Vizzani e Palazzo Fava, in pieno centro storico, ospitano invece due ampie retrospettive. Alessandro Pessoli, il cui lavoro è finalmente visibile in Italia con un buon numero di opere, presenta una serie di disegni, pitture, installazioni realizzate negli ultimi anni a Los Angeles, città in cui vive dal 2009 e in cui ha assorbito l’utilizzo di una gamma cromatica acida e fluo. Nel cinquecentesco Palazzo Fava invece, è presentata una grande antologica di Nicola Samorì, “Sfregi”: il dialogo con lo spazio è di nuovo serrato, nella ricostruzione e rilettura di numerose opere del palazzo stesso – in particolare i fregi dei Carracci.
L’elenco di installazioni site-specific sarebbe ancora lungo, tuttavia all’aria aperta rimane qualcosa: gli interventi ambientali di Stefano Arienti – inizialmente destinati all’edizione di ArteFiera 2021 – disegnano la sagoma dell’Italia in frantumi sotto una teca di vetro, e la sagoma di un’Italia fatta di fiori: vaghi echi di Luciano Fabro, offrono in realtà spunti per metafore e riflessioni attualissime.