Ci sono spazi che emergono con una dichiarazione d’intenti netta, con un’identità scritta in caratteri tipografici, con un programma definito per stagioni. E poi ci sono luoghi che affiorano come un respiro, un impulso quasi narrativo, una storia che si costruisce mentre accade. Teatro Grottesco è un contesto che sfugge a ogni definizione rigida, che rifiuta di essere contenuto ma che si manifesta come un racconto in forma di stanza. Una stanza reale, per anni addormentata e polverosa, nascosta in un appartamento torinese, ma simultaneamente un territorio mentale, attraversato da ombre, apparizioni, stratificazioni di tempo.
Fondato da Saim Demircan, curatore e artista da anni residente a Torino, Teatro Grottesco si è configurato in modo quasi accidentale. Ma l’accidente, qui, ha una sua estetica precisa. Una piccola camera in un palazzo ottocentesco, inizialmente pensata come studio, poi riempita di oggetti, ricordi, accumuli. Finché dopo un incontro a Londra in agosto, l’artista Giorgio Sadotti, figura centrale dell’arte concettuale anni ’90, propone una stampa ispirata a un catalogo di Penone andato bruciato. Torino, Penone, la carta usurata come a ricordare una sindone; l’idea prende forma, la sala, stracolma di oggetti di casa Demircan si svuota. Prende vita Teatro.
Il nome viene da un racconto di Thomas Ligotti, autore culto della letteratura horror contemporanea: Teatro Grottesco (1997) è una storia su una compagnia teatrale itinerante che, in ogni città in cui approda, causa la sparizione di un artista. Una trama che si annida perfettamente nell’immaginario di Demircan, da sempre affascinato dall’ambiguità tra creazione e scomparsa, tra visibilità e ritiro. Teatro Grottesco non si definisce secondo le categorie canoniche del sistema: non è una galleria commerciale, perché non rappresenta artisti; non è istituzione, perché non riceve fondi pubblici; non si riconosce neppure nella formula del “project space” considerata ambigua da Demircan. È piuttosto una «giallo gallery» così definita dal suo autore, una dimensione narrativa, disordinante, mutevole. Un luogo dove l’esposizione si insinua più che esporsi, e dove l’elusivo non è un limite, ma una forma di stratificazione. Un habitat enigmatico, che più che svelarsi preferisce svanire nei dettagli: nei materiali, nella penombra, nei silenzi.
Teatro Grottesco è anche un omaggio implicito alla città che lo ospita. Torino, uno dei set privilegiati del cinema di Dario Argento, regista iconico del thriller soprannaturale, del giallo all’italiana. Film come Profondo Rosso (1975), hanno contribuito a costruire una mitologia urbana fatta di interni segreti, presenze invisibili, luci taglienti. Teatro Grottesco raccoglie quell’eredità e la traduce in un organismo espositivo. Il linguaggio visivo di Teatro riprende i codici grafici delle vecchie collane di romanzi gialli, linee rosse e ocra, su imponenti scritte nere. Le quali diventano, per Demircan, una trama visiva attiva, potente, generativa. Il design incontra l’occulto, l’estetica si fonde con l’atmosfera, che qui, è sempre leggermente fuori fuoco, tra fiction e documento, sogno e architettura.
Teatro Grottesco non nasce solo dal contesto, ma da un tempo interiore. Un’ossessione silenziosa e duratura che ha accompagnato Demircan per quasi vent’anni, cambiando forma, dissolvendosi e riaffiorando a intermittenza, come un’eco persistente. Solo nel momento in cui si è trovato davanti alla possibilità concreta di allestire una mostra con Sadotti, una cornice ha cominciato a delinearsi, costringendolo a passare dall’intuizione alla pratica. Con appena qualche mese a disposizione per sistemare la stanza e organizzare il suo primo allestimento, quello che inizialmente sembrava un gesto isolato si è rapidamente trasformato in un progetto. Un calendario provvisorio di eventi fino all’estate, nato non da una pianificazione premeditata, ma dalla necessità di dare continuità a un impulso che finalmente trovava voce. Una decisione presa in corsa, come tutto in Teatro. Lì per caso, eppure inevitabile.
Un ecosistema fatto da una camera: pareti grigio “polvere” (nome della vernice acquistata in uno storico colorificio del quartiere di Aurora), una scrivania Olivetti Synthesis, sempre presente, e l’illuminazione naturale. Nessuna fonte artificiale: ogni artista invitato porta con sé una propria lampada, che diventa parte integrante della mostra. Giorgio Sadotti scelse una luce rossa. Beatrice Bonino un vecchio tubo fluorescente. L’elemento luminoso è partecipe alla narrazione, trasformandosi in gesto scenico e presenza sospesa. La scrivania, icona del modernismo industriale italiano, funge da centro nervoso del microcosmo di Teatro: ospita opere, materiali, cataloghi. Gli artisti vengono invitati a usarla come superficie, a riscrivere la sua funzione, come studio, altare, archivio vivo.
Il programma curatoriale, fino ad ora è stato composto da tre presentazioni principali. Dopo Sadotti, è stata la volta di Essila Paraíso, artista brasiliana rimasta a lungo nell’oblio, la cui opera ruota attorno alla riappropriazione di icone visive appartenenti all’immaginario dell’arte moderna e contemporanea. Il cuore dell’intervento un catalogo di una sua esposizione a Rio del 1980, insieme a un poster di un film, o meglio un pastiche fatto da André Parente in occasione della stessa mostra e una cartolina con una torta sormontata da un dipinto di Goya. La torta è stata rifatta e servita in occasione dell’evento collaterale ospitato da Paint It Black, libreria e casa editrice torinese complice di Teatro. La terza installazione, in corso, è quella di Beatrice Bonino, che ha creato un nuovo corpo di opere per la galleria, lunghe strisce di tessuto sospese, ispirate dalla storia “fantasma” dell’appartamento sottostante, disabitato da decenni e rimasto fermo agli anni Ottanta.
In tutte queste esperienze, l’effimero è centrale. I materiali sono fragili, stampati, trasportabili in una valigia. Il lavoro stesso scompare, Sadotti arriva con trent’anni di opere su carta, Paraíso viene riesumata e riscoperta, e Bonino si concentra sulla soglia tra presenza e assenza. La comunicazione stessa si dissolve nella logica dell’ambiente. Rarefatta, orale, trasmessa per contatto diretto o attraverso piccoli indizi materiali. Più che dichiarare, Teatro lascia trapelare. Non ci sono comunicati stampa, né testi curatoriali. Nessun annuncio ufficiale, nessuna documentazione dell’allestimento viene pubblicata online prima della fine della mostra.
Teatro appare come un’idea latente in attesa di trovare il suo ritmo e ogni tentativo di descriverlo sarebbe stato prematuro, o peggio, avrebbe soffocato il suo potenziale. E così Demircan ha scelto di lasciarlo parlare da sé, crescere attraverso le relazioni, evitando testi ufficiali e linguaggi codificati che rischiavano di incasellarlo prima del tempo senza limitarne la portata, irrigidirlo. Scrivere una pagina “about” e utilizzare una fredda terminologia istituzionale sarebbe stato controproducente. In questo senso, Teatro Grottesco sfugge deliberatamente alla logica dell’istantaneità online, della sovraesposizione. L’accesso è solo su appuntamento. L’incontro con le opere avviene di persona, oppure non avviene affatto. L’esposizione come atto irreversibile, vissuto e poi svanito.
Non è solo un limite pratico ma una posizione concettuale. Demircan, riflettendo sulle modalità con cui oggi si comunica il contenuto di una mostra, ha espresso la sua riluttanza nei confronti di una documentazione immediata e totalizzante. Il rischio è che l’immagine online soppianti l’esperienza diretta, che si possa avere l’illusione di aver visto il lavoro solo guardandone qualche scatto. Teatro Grottesco nasce proprio in opposizione a questa deriva, non vuole essere un contenuto già confezionato, ma una presenza da scoprire fisicamente. E perciò si posiziona come un dispositivo curato, ma non didascalico. Un contenitore che accetta di non sapere ancora cosa conterrà domani. La narrazione non è un elemento accessorio, ma la spina dorsale. Teatro Grottesco è fatto di parole dette a bassa voce, di aneddoti, inviti personalizzati, frammenti postali costruiti lentamente.
Il futuro? Indefinito. L’unica certezza è che l’appartamento non potrà ospitare Teatro per sempre. Ma è da lì che è partito tutto, ed è importante che sia cominciato in quel luogo e in quella città. Dopo l’estate, forse, Teatro prenderà altre forme, si sposterà, andrà in tour, collaborerà con gallerie amiche. Per ora, vive della sua forma più autentica, quella della transizione. Un racconto a puntate, un giallo senza soluzione, un lampo di luce in una stanza grigia.